Guerre e conflitti che ci riserva l’anno che verrà

guerraIl 2015 lascia in eredità il consueto numero di guerre e conflitti locali che l’umanità è solita intraprendere da quando l’era atomica ha reso altamente sconsigliabile lo scatenarsi di un conflitto mondiale. Ciò che caratterizza la maggior parte delle guerre attuali sono la loro localizzazione, in gran parte, nel mondo islamico e l’ondata enorme di rifugiati che stanno generando. Esaminiamo dettagliatamente quali e quante guerre ci propone il 2016.

L’area di maggior conflitto è sicuramente quella interessata dall’autoproclamato Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (IS o Daesh), a cavallo tra la Siria e l’Iraq. Il 20 novembre scorso, dopo più di un anno e mezzo di guerra, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato, all’unanimità una risoluzione, presentata dalla Francia, che invita gli Stati membri di “adottare tutte le misure necessarie in linea con il diritto internazionale”, per sconfiggere lo Stato Islamico. Ci è voluto l’attentato in Mali perché fosse approvata e, comunque, l’ONU ha evitato di porre il suo “cappello” su una coalizione internazionale anti ISIS, come aveva fatto in altre situazione quali la Guerra di Corea (1950-1954) o l’invasione irakena del Kuwait (Prima “guerra del Golfo”).

Gli sforzi per combattere lo Stato islamico, quindi, continuano a non essere coordinati razionalmente e, anzi, si sono addirittura complicati, nelle ultime settimane. Alla coalizione internazionale a guida statunitense, operante soprattutto sul fronte irakeno e comprendente una trentina di Stati (hanno fornito armi, uomini e mezzi: gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito, i Paesi Bassi, il Belgio, la Danimarca, l’Australia, il Canada, l’Iraq, la Giordania, l’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, la Germania, l’Italia, la Repubblica Ceca, l’Albania, l’Estonia, l’Ungheria e la Turchia, se ne è aggiunta un’altra a guida saudita, formatasi il 15 dicembre scorso a Ryad.

La nuova coalizione (formata da Giordania, EAU, Pakistan, Bahrein, Bangladesh, Benin, Turchia, Ciad, Togo, Tunisia, Gibuti, Senegal, Sudan, Sierra Leone, Gabon, Somalia, Guinea, Palestina, Comore, Costa d’Avorio, Kuwait, Libano, Egitto, Libia, Maldive, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria e Yemen), tuttavia, ha sottratto i paesi islamici alla precedente e ciò rappresenta un’indubbia frattura tra mondo occidentale e mondo islamico “moderato”, quanto meno nei confronti dello stato terrorista. A ciò si aggiunge la posizione autonoma assunta dall’Iran, che combatte Daesh a fianco dei guerriglieri curdi, di etnia iranica (i “peshmerga”) e quella della Russia, a fianco della Siria di Assad. Nel frattempo, la Francia si sta impegnando principalmente sul fronte siriano (appoggiata principalmente dal Regno Unito) ma, in tale ambito, la coalizione internazionale subisce il ruolo, assolutamente ambiguo, esercitato dalla Turchia che ha ripreso a bombardare i curdi stanziati nel proprio territorio – anch’essi anti ISIS – nonostante il cessate il fuoco in vigore dal 2013.

Alla luce di ciò, non sembra che, nel corso del 2016, si possa concludere il conflitto in questa parte di mondo e, comunque, la sua eventuale conclusione lascia prevedere strascichi quanto meno analoghi a quelli del conflitto in Afghanistan se non sicuramente superiori.

Strettamente collegata alla guerra contro Daesh è, infatti, la guerra civile siriana, dove si combattono il regime di Assad, spalleggiato da Russia ed Hezbollah libanesi (guerriglieri filoiranici) e i ribelli della primavera islamica, spalleggiati dagli Stati Uniti, nonché i curdi siriani (contrastati dalla Turchia). E’ evidente che la soluzione alla crisi siriana è rimandata all’esito della guerra contro Daesh; sarebbe già un grosso risultato se le parti (USA, Russia e Iran) riescano a definire una “road map”, nel corso dell’anno.

Sempre nella penisola arabica, è in corso un’altra guerra civile, nello Yemen, dove gruppi ribelli, in parte secessionisti e in parte filo Al-Qaeda, combattono il regime governativo, spalleggiato, in particolare, dalle forze di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Esito previsto: probabilmente filo governativo ma non è detto quando e, sicuramente, con strascichi di guerriglie tribali strettamente locali. Imprevedibile è anche l’esito della guerra civile in Afghanistan che non sembra vedere la luce ma dove non si può nemmeno escludere un’escalation da parte dei Taliban; ciò costringerebbe Stati Uniti e le potenze occidentali a impegnarsi di nuovo in una ulteriore guerra al terrorismo in questa parte del mondo.

Più ottimistica la soluzione della guerra civile in Libia, in quanto le due parti principali hanno recentemente raggiunto l’accordo per un governo di unione nazionale, con la supervisione dell’ONU e dove la presenza dell’ISIS è osteggiata da tutti. Gli ottimisti non gli danno più di sei/otto mesi di vita: ma si dovrà sudare, perché per lo Stato islamico di Derna combattono alcune migliaia di miliziani.

L’altro Stato islamico auto proclamato, quello di Boko Haram, nella Nigeria settentrionale, non sembra destare un particolare interesse tra le potenze occidentali, pur esercitando largamente il terrorismo tra le popolazioni locali. E’ combattuto da una coalizione comprendente le forze militari della Nigeria, del Ciad, del Camerun e del Niger. Il conflitto proseguirà ancora a lungo e difficilmente avrà termine senza l’intervento dell’ONU o di qualche superpotenza. Proseguono i conflitti locali nel Corno d’Africa (Eritrea e Somalia), alimentati dal traffico di armi provenienti dagli angoli più disparati del mondo e dove l’occidente e la comunità internazionale hanno rinunciato a interessarsi da tempo. Dei miliziani dell’ISIS che combattono sulle montagne del Sinai, se ne occupa l’Egitto.

Sul suolo ex-sovietico, può considerarsi diplomaticamente archiviato il conflitto in Ucraina e in Crimea, con il cessate il fuoco del 6 settembre 2014 e non sembra che le posizioni acquisite tra le parti possano essere messe in discussione nel breve o medio futuro. Sul continente americano, invece, si rileva un solo conflitto armato ufficialmente riconosciuto ed è quello colombiano; si protrae dalla metà degli anni sessanta, tra il governo legittimo e due fazioni di guerriglieri che si auto finanziano con il commercio della coca e, pertanto, non se ne prevede la fine.

Tutti questi conflitti si stanno evolvendo, senza l’interessamento dell’ONU (a parte le dichiarazioni di circostanza contro IS e la mediazione per la conclusione della Guerra civile in Libia); ma, contemporaneamente, proseguono almeno una quindicina di missioni di pace dell’organizzazione internazionale che contribuiscono a mantenere in stand-by tutta una serie di conflitti, ufficialmente ancora in corso ma che attenderebbero soltanto una soluzione diplomatica. Quello più annoso, rimane il conflitto arabo-israeliano, apertosi nel 1948 e per il quale l’ONU è presente con due missioni, sulle alture del Golan (confine israelo-siriano) e nel Libano meridionale. Attualmente, però, il fronte più caldo è quello tra Israele e la striscia di Gaza, controllata dai guerriglieri di Hamas, che non riconoscono lo stato ebraico e, di conseguenza, nemmeno la linea conciliativa dell’Autorità Palestinese che li dovrebbe rappresentare. Questo è il motivo principale che impedisce una soluzione diplomatica definitiva di un conflitto, sempre pronto a surriscaldarsi.

L’ONU mantiene missioni di pace, principalmente in Africa, dove contribuisce a prevenire l’escalation di una serie di guerre civili in Liberia, in Costa d’Avorio, nel Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo, nel Sudan Meridionale, in Mali e nella Repubblica Centrafricana. Un’altra missione di pace consente la sopravvivenza di ciò che rimane del Sahara Occidentale, un’entità dimenticata e quasi completamente occupata dal Marocco che se lo è unilateralmente annesso. Due sono le missioni ONU in Europa: una in Kosovo, onde evitare frizioni con la Serbia che non riconosce la sua secessione; l’altra a Cipro, onde evitare contatti tra il territorio controllato dal governo legittimo e lo stato filo-turco, autoproclamatosi nel nord del paese. Sono tutte missioni che hanno posto fine a uno stato di guerra, di cui si attendono soluzioni diplomatiche, di là da venire. E’ un po’ la situazione di un’altra missione internazionale, forse la più datata, quella nel Kashmir, conteso tra India e Pakistan sin dal lontano 1947. In Haiti è presente l’unica missione di pace sul continente americano.

Il bilancio è sicuramente agghiacciante. La connotazione religiosa di gran parte delle guerre in atto è evidente: definirle genericamente una serie di conflitti tra fazioni islamiche che si uccidono a vicenda e che uccidono per la conquista del territorio è sicuramente riduttivo ma abbastanza calzante. Detto ciò, il 2016 prossimo venturo si profila come l’ennesimo anno di non pace del più lungo periodo di non guerra mondiale vissuto dall’homo sapiens dal momento della sua apparizione sulla faccia della terra.

di Federico Bardanzellu 

foto: sputniknews.com

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