e sorrido

e sorridonon le sono piaciuti, i miei occhi.

la psichiatra, avvisata dall’ospedale, oltre alla ramanzina, mi ha raddoppiato una dose. dice che devo prendere più luce, ché restare in ombra non fa bene alla malattia. io le ho chiesto: e a me, a me cosa farebbe bene?

guardandomi negli occhi, non ha saputo rispondere. forse erano ancora più brutti di quando sono entrata, la prima volta, o forse è solo che lei non sa vedere. lei, lei dice che se non esco fuori dai lutti, non ritornerò con i piedi per terra, ma sotto. le ho risposto che.

stanotte il soffitto era più basso del solito, ma in compenso avevo due cuccioli che mi regalavano un po’ d’ossigeno.

parlare con l’orologio in mano mi lascia sempre dentro qualcosa di strano, ché penso ché chi ci vuole aiutare ha troppo da fare per ascoltare. così l’unica cosa che sono riuscita a dire è che ancora chiamo al telefono il mio amico partito, e che quando mi ricordo che è morto. non sono riuscita a finire la frase. i fazzolettini ci sono sempre sulle loro scrivanie.

le mancanze si sommano, e i dispiaceri pesano, e come fossero mazzi di carte le mischio, e poi gioco coi dolori. non so perdere. non so perdere la vita degli altri. e la paura mi fa dire cazzate, oltre che a farle.

i miei occhi sono gonfi, forse saturi di nero, e quando vedono l’arcobaleno, visto che non ci sono abituati, lo scambiano per veleno, ed hanno paura. sono stanchi, stanchi di guardare da lontano.

in tre mesi la vista è scesa di molto. ho pensato a mia madre, e al suo diabete. ho pensato alla neve che hanno dovuto portare, e ai sorrisi amari che hanno dovuto ingoiare. ora stanno provando a sorseggiare qualcosa, ma hanno bisogno del bicchiere.

che forza che è pisolo!

i suoi occhi sono appesi all’attesa, e non smette di fissarmi, ché vuole essere preso in braccio. lo allungo, e gli faccio una carezza sotto il mento, a quello doppio, e lui si butta subito giù come fosse appeso per le zampe. e trema.

e tremo, all’idea di svegliarmi la mattina, e non ritrovare il sogno. lei dice di attaccarmi a quello. io le ho detto che ho mani troppo corte, ma non sono avara, e che poi so disegnare le pareti, ma a volte restano muri e sono peggio dei muli.

di mulini a vento ne ho visti molti, è questo il problema, anche se non sono mai stata in olanda. o forse è solo una questione di munizione, ché non riesco a spararmi buone notizie, per salvarmi, e allora l’essere indifesa conta fino a zero, e come una corda, il pensiero gira intorno al collo.

giro il collo e il volto si sofferma su una foto. è immaginaria, anche la cornice, ma io la vedo. e mi domando dove conduce l’essere il tempo ignoto. è un innominato il grido che festeggia nella mente, mentre poi la realtà sconfina e si appropria, con subdola forza, propro di quella forza che dovrebbe essere la guida per trovare il bastone.

sarei dovuta essere il bastone della sua vecchiaia. me lo diceva sempre. ora io lo devo ripetere a me stessa, ma non è la stessa cosa. tutto ciò che i miei occhi toccano sa di proibito, e si scottano, e bruciano, mentre cercano di trovare qualcosa tra il divenire che se ne va in fiamme.

la fiamma era alta, e la legna scoppiettava parole calde. i cuscini neri in terra giocavano a dama col pavimento rosso, ed io mi sentivo la più bella del reame. sapevo dare alla mente quel tanto che bastava al futuro per arrivare a sera, e nei disegni di un lenzuolo trovavo le righe necessarie per scrivere senza andare a cercare l’inchiostro altrove.

devi mandare la mente altrove, mi ha detto, e smettila di pensare, vedrai che tutto si sistemerà. dentro mi dicevo che aveva ragione, ma poi la ragione se ne va in giro a bighellonare, e come fosse birra, l’irrazionalità m’ubriaca la vista. non sono matta, solo un pochino, quel tanto che basta ad infilarmi nel letto dei guai. ma guai, a non essere così, sarebbe come togliere i pori dalla pelle, ed io devo toccare tutto con la mano.

allungo la mano, e cerco la tua, mentre cambiavi, e non solo le marce, ma anche il flusso delle mie vene. e mentre sentivo il desiderio di baciarla, la lingua mi diceva che era ora di deglutire, se non volevo morire. ora che non ci sei più, ti mando giù, più giù, nel petto, dove passi come un treno in arrivo, e sento lo stridore dei freni, e capisco che mi devo fermare, se non voglio partire di nuovo.

di nuovo m’arriva la tua voce, ogni volta che m’affaccio per quella via, e vedo andar via qualcosa di rosso, e come una mattanza che m’assorbe, prendo la schiena e la sorreggo, proprio con quel bastone che all’improvviso s’appropria di ciò che non vedo, e mi sostiene. e il ricordo mi sostiene, mentre scendo dalla rampa di quel garage che è l’unica nostra realtà rimasta, e porta il nome fantasia, ma che sa farmi toccare senza usare i rami che m’escono dai polsi, e come foglia mi sento leggera, e radici, le parole non dette, mi concimano il presente.

sono presenti, i miei occhi, coscienti di ciò che penso.

mentre la mia faccia si fa strana, ché quando viaggio s’assenta, inconsciamente mi dico che non c’ha capito niente.

e sorrido, mentre l’osservo scrivere le ricette, ché io le medicine già le prendo, forse ho solo bisogno di un bicchiere…

di simonetta bumbi

foto: stefano cracco

2 Risposte

  1. Alessandro Bertirotti

    Come sempre… le tue parole sono come massi che scendono, senza fare troppo rumore, ma, volendo segnano, quasi invisibilmente gli animi di coloro che fanno spazio alla loro caduta. Grazie di tutto e per tutto, Alessandro 🙂

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  2. cristina bove

    “sapevo dare alla mente quel tanto che bastava al futuro per arrivare a sera, e nei disegni di un lenzuolo trovavo le righe necessarie per scrivere senza andare a cercare l’inchiostro altrove.”

    ecco.

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