Assassinio a Santa Maria del Fiore

Due ricche famiglie fiorentine, i Medici ed i Pazzi. Un’amicizia che si sgretola sotto le scosse degli affari e della politica. Il tradimento, la congiura, la vendetta. La morte di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico, in un agguato da cui quest’ultimo esce miracolosamente vivo.

di Raffaella Bonsignori

Ostilità fatali

Nella primavera del 1478 Firenze è in festa per la visita di Raffaele Sansoni Riario, nipote di papa Sisto IV della Rovere, giovanissimo porporato detto il cardinalino. La sua presenza è occasione per i maggiorenti di esprimere munifica ospitalità. Sono due, in particolare, le famiglie che si contendono questo onore, quella dei Pazzi e quella dei Medici, entrambe proprietarie di rinomate banche. I Medici, però, con Lorenzo e Giuliano, nipoti prediletti di Cosimo il vecchio, sono anche al governo. Notevoli i loro investimenti nell’arte e nello svago cittadino, nella cura degli interessi di Firenze, ma anche molto ferrea la loro gestione della cosa pubblica. I fiorentini li amano, sebbene non manchino voci che li accusano di tirannide; tra queste spicca, seppure in principio solo sommessamente, quella di Francesco Pazzi, loro amico in apparenza, ma, nella realtà, malevolo rivale, intenzionato ad ucciderli pur di conquistare il potere. La visita del cardinalino sembra l’occasione perfetta per farlo; avrebbe assicurato, infatti, la contemporanea presenza di Lorenzo e di Giuliano in uno stesso luogo, imprescindibile condizione per il successo della congiura, dal momento che colpirli separatamente sarebbe stato più difficile per il duplicarsi delle difese, senza contare il fatto che, se uno dei due fosse rimasto in vita, il governo della città non sarebbe cambiato e la più sanguinosa vendetta sarebbe calata su tutti loro.

Tra coloro che progettano l’omicidio insieme ai Pazzi figurano tal Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, contro il quale Lorenzo si era apertamente schierato; Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi, amici di Francesco Pazzi; Jacopo Bracciolini; il conte Giovan Battista Montesecco, capitano pontificio; e due presbiteri, Stefano di Bagnone, precettore dei Pazzi, ed Antonio da Volterra.

Il corteo che accompagna il cardinale si riunisce per un primo fastoso banchetto nella villa dei Pazzi a Montughi. Giuliano, però, non si presenta a causa di un’indisposizione e, dunque, nulla accade. Il successivo festeggiamento si svolge nella villa dei Medici a Fiesole, ma, contro ogni previsione, anche lì Giuliano, ancora spossato dal malessere che l’ha colto, non interviene.

Le mani dei congiurati fremono; vogliono impugnare i coltelli, sfoderare le spade; vogliono il sangue dei Medici. L’occasione non tarda ad arrivare. Un ulteriore festeggiamento è previsto: il cardinalino avrebbe celebrato messa in Santa Maria del Fiore e, poi, avrebbe partecipato al più fastoso dei banchetti finora offerti, quello nel palazzo fiorentino dei Medici, in via Larga. Nel dubbio, però, che l’indisposizione di Giuliano possa ancora una volta impedirgli di partecipare al banchetto, i congiurati decidono di agire in chiesa, dove sicuramente entrambi i fratelli si sarebbero dati convegno.

Il segnale concordato è il tintinnio del campanello che precede l’ostensione dell’Ostia. Mentre in chiesa si sarebbero consumati gli omicidi, Salviati e Bracciolini si sarebbero recati a Palazzo della Signoria per uccidere il Gonfaloniere di Giustizia Cesare Petrucci, e Jacopo de’ Pazzi avrebbe incitato il popolo di Firenze a sentirsi finalmente libero ed a sollevarsi contro i Medici.

Il progetto di uccidere in chiesa, tuttavia, fa orrore persino ad alcuni dei congiurati ed il conte di Montesecco rinuncia, in ultimo sostituito dai due presbiteri.

Un simile progetto omicidiario ben svela non solo l’odio dei Pazzi per i Medici, ma anche la loro sicurezza d’avere le spalle coperte dalla Santa Sede, che, in via ufficiosa, non condanna quel gesto, pur tanto sacrilego.

Sisto IV, infatti, ha un conto in sospeso con i Medici per un torto subìto cinque anni prima. Nel 1473 gli Sforza, tolta da tempo Imola a Taddeo Manfredi, avevano accettato di cederla a Sisto IV per 30.000 fiorini. A beneficiare della cessione il nipote del Papa, Girolamo Riario, il quale avrebbe sposato Caterina Sforza ed avrebbe dato ad Imola un governo papalino-sforzesco.

Per avere in prestito quell’ingente somma, il Papa si era rivolto ai Medici, fino ad allora banchieri di fiducia della Santa Sede.

Tuttavia, Lorenzo, poco convinto dell’approssimarsi di Roma a Milano ed alla Romagna, aveva rifiutato il prestito, spiegando con chiarezza ai propri concittadini le sue gravi perplessità politiche: se il Papa avesse trovato i soldi, Firenze avrebbe presto avuto degli scomodi vicini, in ardore di conquiste. Non era stato ascoltato, però, quanto meno non da tutti. I Pazzi, infatti, avevano deciso di finanziare il Papa, il quale, da quel momento, aveva concesso loro tutto il suo appoggio. Dopo aver attribuito a costoro la carica di depositari della Camera Apostolica, carica storicamente medicea, aveva trasferito alla loro Compagnia anche l’esportazione e la vendita dell’allume di Tolfa, impartendo un duro colpo alla banca dei Medici.

Ai Pazzi, dunque, mancava solo il potere politico nella loro Firenze ed intendevano prenderselo con la forza.

Messa insanguinata

Domenica 26 aprile 1478: l’atteso giorno della congiura è giunto. In chiesa mancano solo i Medici. Francesco Pazzi e Bernardo Bandini si guardano nervosamente, nel timore che l’indisposizione di Giuliano sia peggiorata ed abbia costretto anche Lorenzo in casa. Un tumulto di dubbi e di paure, di attesa e di determinazione assassina pervade l’animo dei due congiurati, che decidono di uscire dalla chiesa per andare a verificare. Incontrano i Medici strada facendo e, rassicurati, li salutano cordialmente, non lesinando abbracci, tesi a verificare l’eventuale presenza, sotto gli abiti, di giachi o corazze. Lorenzo è armato di spada; Giuliano inerme. Tutti e quattro si recano in chiesa. Insieme. Da amici (sic!).

L’atteso tintinnio della consacrazione dell’Ostia rompe il silenzio: l’ultimo suono evocatore d’una santità che viene squarciata dalla violenza e dal sangue. Sono tutti inginocchiati, anche Lorenzo e Giuliano. E’ massima la loro vulnerabilità. Le armi vengono sfoderate. Giuliano è il primo a cadere: “Bandini, per primo, con un colpo trapassagli il petto. Il semivivo fa prova di fuggire, e lui dietro. Fatti alcuni passi, mancandogli col sangue le forze, mentre stramazza, eccogli sopra Francesco Pazzi, ed i colpi non aspettano i colpi. Così ammazzano quel sì dabben giovane, l’amico mio dolcissimo”, scriverà Agnolo Poliziano, presente in chiesa.

Nel frattempo anche Lorenzo viene aggredito e ferito gravemente al collo, ma reagisce in modo ferino ed ha la meglio sui suoi assalitori. Un suo amico, Francesco Nori, muore facendogli scudo con il proprio corpo e consentendogli di rifugiarsi nella sagrestia. Un altro, Antonio Ridolfi, nel timore che le lame siano state avvelenate, succhia la sua ferita, sputando il sangue in terra. Lì, in quella stanza protetta dalle belle porte bronzee di Luca Della Robbia, accanto ai suoi più fedeli amici, lo raggiunge la notizia della morte di Giuliano, che lo ferisce ancor più del colpo di spada subìto.

Il disegno criminoso sta volgendo al termine e dilaga fuori dalle navate insanguinate di Santa Maria del Fiore, ma fallisce. Salviati e Bracciolini vengono fatti prigionieri, mentre Iacopo Pazzi, che, cavalcando per le vie di Firenze, incita i cittadini alla ribellione con il grido “Popolo e Libertà”, si sente rispondere da ogni dove “Palle! Palle!” e, siccome i fiorentini ancora fedeli ai Medici, passati alla storia, appunto, come pallisti, sono molti e gridano contro di lui con voce altrettanto ferma, se la dà a gambe.

Punizione e vendetta.

La furia di Lorenzo si abbatte sui congiurati. Un’ora dopo l’attentato i corpi senza vita di Salviati, Bracciolini e Francesco Pazzi pendono fuori dalle finestre di Palazzo della Signoria. A Botticelli andrà il macabro compito di immortalarli in un affresco, appesi a testa in giù come si conviene ai traditori. Per alcuni non si spreca nemmeno la corda: li si getta dalla finestra e la pubblica via è disseminata di cadaveri. Alla fine, verranno giustiziate più di ottanta persone. Il popolo di Firenze non inorridisce; anzi si esprime con “atti ammirativi”, come scriverà Leonardo da Vinci.

Iacopo Pazzi, inizialmente fuggito a Castagno, viene ricondotto in città e giustiziato, ma il furore della folla non è pago ed il suo corpo diventa icona della vendetta celata dietro la punizione. Dapprima tumulato in Santa Croce, viene prontamente disseppellito poiché, si dice, immeritevole di sepoltura in luogo sacro. Deposto presso le mura cittadine, viene disseppellito ancora una volta da una banda di giovani fiorentini, detti i fanciulli, ed usato come ariete contro il portone di quello che era stato il suo stesso palazzo. “Aprite a messer Iacopo de’ Pazzi!” urlano gli invasati. Dopo tale scempio, il corpo viene gettato in Arno: si spera che le acque del fiume mondino i suoi peccati e li allontanino da Firenze. Nemmeno il fiume, però, è in grado di concedergli riposo. Ripescato a valle, viene nuovamente impiccato e, quindi, gettato definitivamente in acqua.

Una simile epurazione offre il pretesto al Papa per scomunicare Lorenzo, nella speranza di riuscire laddove le lame dei Pazzi avevano fallito, ossia allontanarlo dal governo di Firenze. “Figlio dell’iniquità e della perdizione” lo definisce, e minaccia guerra qualora Firenze non lo affidi alla sua punizione. Lorenzo è disposto a consegnarsi al Papa, ma la sua città gli si stringe attorno ed affronta per mesi, con coraggio, battaglie e pestilenza. Poi giunge alla disperazione.

Lorenzo, a quel punto, non può fare altro che recarsi a Napoli, ove, a febbraio 1480, riesce a convincere re Ferdinando I d’Aragona a firmare la pace, in ciò aiutato dalla minaccia turca che, in quei primi mesi dell’anno, si fa sempre più concreta, distogliendo l’attenzione di Napoli da Firenze. Suggestiva ma non certa la tesi che i turchi abbiano deliberatamente favorito la città medicea, forzando, con l’assedio di Rodi e la battaglia di Otranto dell’estate 1480, il rientro delle truppe napoletane, rimaste in Toscana nonostante la pace fatta. Maometto II, del resto, è lo stesso sultano che, palesando stima nei confronti di Lorenzo, gli aveva concesso l’estradizione di Bernardo Bandini, l’ultimo dei congiurati ad essere catturato. Poco dopo l’uccisione di Giuliano, infatti, Bandini aveva raggiunto Costantinopoli e lì era rimasto fino al 29 dicembre 1479, quando, riportato a Firenze in ceppi, era stato giustiziato in Piazza della Signoria; punizione esemplare affidata, per futura memoria, all’arte di Leonardo da Vinci che ne disegnò il corpo senza vita in un’intensa opera oggi conservata al museo Léon Bonnat di Bayonne.

Sia nel 1479, sia nel 1480 fu serrato lo scambio di messaggi tra Costantinopoli e Firenze e l’invio di doni da parte di quest’ultima; che fossero un ringraziamento per l’estradizione o per l’attacco agli aragonesi non è dato sapere. L’unica certezza è che, con la morte di Bandini, si chiude definitivamente il capitolo sull’assassinio di Giuliano, ancora oggi icona di empietà, poiché quel sangue versato in chiesa, durante l’ostensione del corpo di Cristo nel sacro pane, macchia i libri di storia forse più dell’aspra punizione medicea.

Foto di Jacques Savoye da Pixabay

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