La curiosità per la ricerca: intervista al pianista Mattia Ometto

mattia ometto

Allievo di leggende del calibro di Aldo Ciccolini e Earl Wild, sin da giovanissimo compare nelle stagioni concertistiche delle principali città italiane. Nel 2008 debutta al Theatre du Rond Point des Champs Elysées di Parigi e alla Carnegie Hall di New York, iniziando da quel momento a esibirsi regolarmente in Europa e negli Stati Uniti.

La sua discografia comprende l’integrale della musica vocale da camera di César Franck e di Henri Duparc (Brilliant Classics) e l’integrale della musica per due pianoforti di Johannes Brahms con Leonora Armellini (DaVinci). In duo col pianista Leslie Howard ha inciso l’integrale della musica per due pianoforti e quattro mani di Reynaldo Hahn (Melba Recordings) e l’integrale della musica per due pianoforti di Franz Liszt (Brilliant Classics – attualmente in produzione).

Leonora Armellini, una tra le giovani pianiste di maggior talento e grande amica di Mattia, ce lo presenta così: “Prima di tutto per me Mattia è quella persona su cui posso contare se ho un dubbio o bisogno di un consiglio, un amico prezioso sempre pronto a darti un mano. Come musicista è davvero straordinario: ha grandissima cultura e intelligenza, le sue scelte musicali e di repertorio sono sempre pensate ed estremamente giuste. Sempre.”

Da poco è iniziato il nuovo anno. Come hai trascorso il 2020, un anno così turbolento per molte categorie, ma per gli artisti in maniera particolare?

L’ho passato un po’ come tutti, ovviamente, con un riposo forzato per quanto riguarda la parte concertistica e con un’attività didattica prevalentemente online. Per fortuna, devo dire, mentre diversi impegni sono saltati, ne avevo alcuni altri che sono riuscito a compiere: ho avuto una tournée negli Stati Uniti proprio pochi giorni prima del lockdown, quindi ho fatto giusto in tempo a tornare a fine febbraio, prima che chiudessero tutto.

Soprattutto, ho approfittato di questo tempo di pausa per studiare parecchio e anche portare a termine alcuni progetti discografici, dal momento che, fortunatamente, era ancora possibile almeno registrare.

E cosa hai studiato, quindi?

Ho studiato prevalentemente per un progetto discografico che sto realizzando proprio in questo momento: si tratta di un doppio CD solistico dedicato alla musica di Nikolai Medtner, compositore russo che adesso comincia ad avere una certa popolarità, ma che era semisconosciuto anche in vita. Era molto stimato da Rachmaninov, il quale addirittura lo aiutò, in alcuni casi anche economicamente, e si spese molto per la diffusione della sua musica, che sicuramente merita moltissimo.

Ho già registrato il primo disco, mentre il secondo verrà registrato tra qualche settimana.

Alla fine del 2020, è anche uscito il tuo ultimo CD con Leonora Armellini e l’Orchestra di Padova e del Veneto. Ce ne vuoi parlare?

Sì, è uscito da poche settimane. Il disco (Poulenc, Britten, Debussy: Concerto for 2 Pianos, Scottisch Ballad, Suite – Brilliant Classics, ndr) presenta l’incisione dal vivo che Leonora e io abbiamo fatto nel 2018 in occasione dell’inaugurazione del Festival pianistico Cristofori di Padova, insieme all’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Luigi Piovano. Il tema del festival era “storie di canti” e quindi abbiamo scelto, in accordo, naturalmente, con la direzione artistica del festival, di presentare il Concerto per due pianoforti di Poulenc, uno dei suoi brani più noti, che sicuramente deve molto alla matrice folkloristica e alla presenza di temi popolari, accostandolo alla Scottish Ballad di Britten che è fondamentalmente una specie di trasfigurazione di temi popolari scozzesi. Si comincia con una prima parte in forma quasi di marcia funebre e nella seconda parte abbiamo momenti invece più brillanti ed energici. Abbiamo pensato che questi due pezzi si sposassero molto bene insieme, sia per l’affinità dei temi, sia anche per il particolare legame che c’era tra i due compositori, dal momento che Britten e Poulenc si conoscevano, si ammiravano e, per di più, dieci anni dopo la première di questo concerto, che è stata fatta a Venezia, Poulenc suonò di nuovo questo brano proprio con Britten al secondo pianoforte.

Per il disco, abbiamo completato il programma con un pezzo inciso in seguito in studio: volendo rimanere in ambito francese, abbiamo cercato una rarità e abbiamo trovato questa suite debussyana quasi totalmente sconosciuta e scoperta solo di recente. Una suite originariamente scritta per orchestra, ma in una versione a quattro mani dello stesso compositore.

Vuoi descriverci la tua collaborazione con Leonora Armellini?

Leonora è sicuramente una tra le giovani pianiste italiane di maggior talento. Con lei ho un rapporto molto particolare, nel senso che siamo anche vicini di casa e ci conosciamo da anni, perché, essendo entrambi pianisti, entrambi della stessa città, siamo diventati prima amici che collaboratori.

Con lei, la presenza di una forte amicizia facilita tutto il lavoro. Abbiamo veramente tante cose in comune e collaborare con lei è un piacere ed è molto stimolante; per esempio, come me, è una grandissima lavoratrice, nel senso che le piace provare molto.

Ma, soprattutto, quando mette le mani sul pianoforte, non c’è che da ascoltare e ammirare, perché è veramente straordinaria.

In questo caso, la scelta di questi brani è maturata insieme alla direzione artistica. In genere invece come scegli il tuo repertorio?

Bisogna fare una distinzione tra quello che è repertorio discografico e quello che è repertorio concertistico. Talvolta coincidono, nel senso che quando si sta preparando un progetto in vista di un’incisione è possibile testarlo presentandolo al pubblico. Altre volte, invece, ciò non è possibile, perché la discografia spesso obbliga a fare integrali o monografie, un concetto che dal vivo non funziona così bene. Secondo me in concerto è più efficace basarsi sul principio del contrasto. Quindi, incido volentieri due dischi dedicati a Medtner, ma presentare due ore di musica di questo stesso autore in pubblico non la trovo una buona scelta.

Perciò, per quanto riguarda l’aspetto discografico, il mio interesse è sempre volto a scoprire repertori e autori meno esplorati, che però, ovviamente, io considero meritevoli di essere conosciuti. Mentre per quanto riguarda quello concertistico, cerco di combinare parti di questo repertorio con altri brani che in quel momento ho piacere di suonare, oppure che ritengo possano costituire una buona accoppiata.

Preferisci esibirti al pianoforte solo, con l’orchestra, in musica da camera? Qual è la tua dimensione ideale?

Questa è una risposta che cambia spesso, nel senso che c’è stata tutta una prima parte della mia attività, in cui ho fatto esclusivamente il solista, poi ho iniziato a lavorare molto come musica da camera e, devo dire la verità, fino a qualche tempo fa avrei sicuramente detto che mi piace molto di più fare quest’ultima. Però non sono sempre dello stesso parere, quindi, in realtà, dipende. Sono cose che vivo in maniera talmente opposta che faccio anche fatica a paragonarle.

Lavorando tanto con il duo pianistico, trovo che sia un’esperienza molto bella, perché c’è una grande condivisione, per esempio dell’ansia che è in grado di portare un concerto. Avere un partner con cui condividerla dà forza a entrambi. E allo stesso tempo, però, la soddisfazione si moltiplica per due. A me risulta più facile fare musica da camera e la adoro in tutte le formazioni, sia con i cantanti, sia con i due pianoforti.

Di contro, l’esperienza del solismo è molto più solitaria, però, e questo l’ho scoperto in tempi più recenti, è molto più interessante dal punto di vista della crescita personale, perché ti costringe a guardarti dentro molto di più e tirar fuori veramente quella che è la tua personalità, il tuo carisma. Ti mette di fronte a questioni più importanti e mi accorgo che c’è un maggiore arricchimento.

Insomma, sono due cose molto diverse e non vorrei rinunciare a nessuna delle due.

Guardiamo un esempio di musica da camera, allora: le musiche di Duparc con il basso Andrea Mastroni. Che collaborazione è stata?

Fantastica, fantastica. Devo dire che nella mia vita ho avuto la fortuna di lavorare con persone straordinarie! Tra queste, oltre a Leonora Armellini, vorrei citare Leslie Howard, uno dei più grandi pianisti viventi con cui sto incidendo molti dischi di Liszt e, sicuramente, Andrea, un artista strepitoso, molto colto, di grande spessore umano e culturale che sta avendo l’enorme carriera che si merita. Collaborare con lui è sempre un grande piacere, perché siamo esattamente sulla stessa lunghezza d’onda su quasi tutto. Abbiamo iniziato a lavorare insieme nel 2013 affrontando, soprattutto, il repertorio liederistico schubertiano e schumanniano. Volendo metterci alla prova in un progetto discografico, abbiamo esplorato ambiti diversi per scegliere qual era la nostra cifra ideale. E abbiamo trovato che nella musica di Duparc ci fosse qualcosa di veramente speciale che noi pensavamo di poter mettere in evidenza.

Duparc è stato un compositore importante per la liederistica francese, che però ha avuto una storia veramente drammatica, nel senso che, per tutta la vita, ha avuto una personalità molto tormentata, tant’è vero che, a mano a mano che componeva, distruggeva tutto. Questo disco contiene l’integrale delle sue melodie che sono press’a poco anche il corpus intero delle opere che ci ha lasciato. Abbiamo pensato che il clima di sofferenza e di struggimento, che si respira in questa musica, potesse essere molto nelle nostre corde.

E poi parte del tuo lavoro è anche dedicata alla didattica. Questo aspetto ti piace?

Sì, sì, l’ho sempre fatto sin da molto giovane, quando io stesso ero ancora studente. Ormai sono in Conservatorio da diversi anni: in questo momento sto insegnando Pianoforte principale al Conservatorio di Adria.

Per me il rapporto con gli studenti è molto stimolante. Molti musicisti ti direbbero, ed è vero, che imparano molto dai propri studenti, perché a volte ci si scontra con difficoltà che noi non abbiamo provato su noi stessi e che siamo costretti ad affrontare per risolverle con loro. Però l’esperienza per me più stimolante e difficile, forse, dell’insegnamento, al di là dell’aspetto pianistico, è di cercare di capire e di supportare la motivazione di ciascuno studente. È necessario capire perché quella persona è lì, cosa vuole imparare esattamente da te, che cosa puoi fare per lei in quel momento. Vi è, quindi, una necessità continua di spostarsi fuori di sé. Infatti, il musicista, soprattutto se solista, è molto concentrato su se stesso, mentre l’insegnamento ti obbliga a metterti nei panni degli allievi e capire i loro problemi. E questo, oltre a essere un’esperienza che ti aiuta a staccarti ogni tanto dalle tue cose, è anche un buon esercizio di umiltà.

Parlando di giovani e di motivazioni, soprattutto in un periodo come questo, secondo te perché in Italia è così difficile vivere di musica?

Domanda spinosa. È senza dubbio difficile, ma io ritengo che sia molto importante, per i giovani musicisti che vogliono intraprendere questa carriera, dimostrare e sviluppare una certa flessibilità. Perché è vero che è molto difficile e immagino che dopo tutto quello che stiamo passando lo sarà ancora di più. Però è vero anche che se una persona ha la giusta preparazione, la giusta intraprendenza e la giusta cocciutaggine può riuscire a farcela, ritagliarsi perlomeno il suo spazio all’interno della musica. Questo non significa che tutti devono diventare grandi musicisti: non esistono solo i grandi musicisti, ci sono anche gli ottimi musicisti e i buoni musicisti, che possono continuare ad esercitare la propria arte e, magari accostandola anche all’insegnamento o altre attività, a riuscire a portare avanti il proprio percorso.

Per esempio, tutta la visibilità che può derivare dal mondo dei social network dà ulteriori frecce all’arco di chi vuole dire la propria ed esprimersi. È una novità degli ultimi anni, ma oggi abbiamo visto che, al di là dei circuiti tradizionali di diffusione della musica, ci sono anche molte altre attività di intraprendenza personale, che ottengono il proprio riscontro e la propria visibilità proprio attraverso i social e non c’è assolutamente niente di male in questo, se sono supportati anche della giusta qualità.

E quindi che consigli ti sentiresti di dare a un giovane che voglia intraprendere questo cammino?

La prima cosa che mi sento di dire non è un consiglio, ma una condizione sine qua non: a parte le capacità tecniche, occorre avere una preparazione eccellente e il più possibile ampia sia nei linguaggi, sia nei generi, in tutto. Più uno conosce più uno capisce, più uno capisce più uno può fare. Dopodiché io penso che per i ragazzi sia importante sviluppare, imparare e conoscere il più possibile tutti gli aspetti di questo lavoro, perché molte persone si fossilizzano sulla propria preparazione strumentale, ma poi non hanno nessun tipo di capacità di promozione o non sanno come parlare col pubblico. Quindi è assolutamente fondamentale, secondo me, che, di pari passo con la preparazione musicale, ci sia anche una preparazione a essere dei buoni manager di noi stessi, imparare a comunicare, imparare a dire la propria in modo efficace.

Ho diversi amici musicisti che lamentano esattamente questa lacuna nel loro percorso di studi in Conservatorio: ci si concentra tanto sulla musica, ma tutto il contorno rimane sconosciuto.

E invece è fondamentale.

Un’altra cosa importante, secondo me, è la curiosità, che invece talvolta manca. Curiosità significa esplorare anche repertori nuovi, oppure proporre e inventare progetti innovativi, non semplicemente marcare la strada del concerto pianistico con il solito repertorio. In una parola, occorre sperimentare e ricercare tantissimo, perché anche questo fa la differenza.

Li trovo ottimi consigli, grazie.

Vorrei sapere, a parte Medtner, quali altri progetti hai per il futuro? Cosa speri per questo anno?

In questo momento è ancora tutto fermo, naturalmente. Ho comunque dei concerti programmati per quest’estate e anche dei masterclass che speriamo possano avere luogo.

E poi vedremo. I progetti ci sono, naturalmente, però è tutto molto condizionato dall’andamento della pandemia. Io sono abbastanza ottimista, devo dire, però, insomma, … aspettiamo.

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