
Tra i verbi «essere» e «avere» passa la misura della libertà. Confondiamo ciò che abbiamo con ciò che siamo e riduciamo l’essere alla somma dei beni. Poi svanisce l’euforia dell’acquisto e torna la domanda: chi sono quando tolgo ciò che possiedo?
Essere o avere? La povertà che dilata la vita
La tradizione cristiana ha colto con lucidità il rischio di essere governati dalle cose. Il versetto «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Matteo 6,24 – Discorso della Montagna; Luca 16,13), non demonizza gli oggetti, registra il loro potere di colonizzare il cuore. San Francesco d’Assisi e Santa Chiara, con la scelta della semplicità, hanno mostrato che spogliarsi non è rimpicciolirsi ma liberare energie per amare. San Benedetto, scandendo il tempo tra lavoro e preghiera, ha insegnato che la misura non mortifica, custodisce. Allo stesso modo, Santa Teresa d’Ávila, ci ha consegnato una mappa spirituale assai concreta con il suo “Castello interiore”. All’ingresso ci si affanna nei corridoi del desiderio, poi il passo rallenta, le stanze si ordinano, gli oggetti tornano strumenti. Teresa chiamava questo stile “determinata determinazione”, una fermezza mite che educa senza irrigidire e riallinea l’avere alla verità dell’essere.
In pratica, l’esterno aiuta a salire, ma la casa si abita dentro, dove l’identità decide. Restare sulla soglia confonde, entrare nella stanza libera, e così ogni scelta ritorna al centro e ogni bene ritrova misura.
“Io Sono” e l’uso dei beni
Su un crinale diverso ma convergente, la linea di pensiero, attribuita al conte di Saint Germain, insiste sull’Io Sono come ritorno alla sorgente che abita ciascuno. Non un io onnipotente, bensì ricondotto al principio. In questa luce, l’avere non viene respinto, viene trasfigurato e diventa energia viva quando si lascia orientare dall’essere e dall’amore.
Il messaggio sembra criptico ma in realtà è molto semplice: ciò che tratteniamo finisce per farci avvitare dentro noi stessi, ciò che passa attraverso di noi matura e genera vita.
Di conseguenza, il denaro smette di essere un avvolte assoluto e torna linguaggio, non colonizza ma scorre e dà forma a ciò che vale.
I giovani e l’illusione del primo posto
Eppure la modernità alimenta un equivoco che attecchisce soprattutto tra i giovani, quando il bisogno di riconoscimento pesa di più. Auto di lusso, orologi che costano quanto una casa, weekend ripetuti nelle stesse capitali della movida, diventano un sinonomo di appartenenza.
In apparenza, questo avere promette libertà, nella pratica apre dipendenze sottili dal debito, dal consenso, dall’obbligo di restare al passo. Proprio qui il Vangelo propone un realismo che parla al presente con la parabola del banchetto, quando Gesù, osservando gli invitati scegliere i primi posti dice “Se il padrone di casa ti chiama avanti, sarai onorato; se ti fa retrocedere, sarai umiliato” (Lc 14,7-11).
Cosa significa? Di certo, Cristo non vuole darci una lezione di galateo. Vuole farci capire che quando l’iniziativa non nasce dall’ansia di apparire ma da una chiamata ricevuta, si avanza senza smarrire se stessi. Dentro questo orizzonte il piacere non è un nemico, rientra al suo posto. Mangiare bene, vestirsi con cura, viaggiare e guidare in sicurezza restano modi giusti di abitare il mondo, purché non utilizziamo questi averi nel tentativo di riempire un vuoto. Ma tornando alla domanda “Essere o avere”, come dovremmo posizionarci, cosa dovremmo scegliere per essere davvero felici?
Verso una sovranità sobria
Di certo, dovremmo imparare a non diventare schiavi degli oggetti, a riconoscere l’eccedenza e a lasciarla passare, a scegliere l’essenziale senza affannarci per il superfluo.
Nel quotidiano, tutto questo prende corpo in piccole azioni concrete. Dire no a un acquisto che tampona la noia, finire bene un lavoro iniziato, ascoltare prima di reagire, mettere a bilancio i fini oltre ai costi, chiedersi non solo quanto costa una scelta ma che cosa produce in noi e negli altri. Gesti discreti eppure generativi, capaci di riordinare l’interno e, per ricaduta, l’esterno. Quando questo stile attecchisce, il denaro perde potere di ricatto, smette di essere talismano identitario e torna utensile.
Così l’avere cede il centro e l’essere riprende la regia, e la vita, senza ostentazioni, torna a somigliare a se stessa.
Foto di Jill Wellington da Pixabay
Scrivi