Charles Bukowski, in una delle sue poesie, scrisse: “Le parole sono belle e pericolose. Se vengono a trovarti, te ne accorgerai e ti sentirai il più fortunato della terra. Nient’altro avrà più importanza e tutto sembrerà importante. Ti sentirai il dio Sole, riderai del tempo che fugge, ce l’avrai fatta, lo sentirai dalle dita fino alle budella, e sarai diventato, finché dura, un fottutissimo scrittore che rende possibile l’impossibile, scrivendo parole, scrivendole, scrivendole”.
La sua è una ballata di vita interiore, come quasi tutti i suoi componimenti, ma, soprattutto, è un condensato di verità. Essere scrittori è esattamente questo; è aprirsi alle parole che arrivano, formando storie, creando anime, viaggiando in mondi paralleli dove realtà ed invenzione convivono. Chi possiede il dono della scrittura è veramente il dio Sole o la dea Luna perché è in grado di trasformare la carta in un Big Bang da cui nascono vite.
Michele Navarra, avvocato penalista romano, è uno scrittore vero. Scrive, come lui dice, ciò che conosce, il mondo giudiziario, inventando storie che hanno appiglio nella sua realtà e si trasformano, attraverso la fantasia, in thriller accattivanti e ben scritti. Potrebbe sembrare banale sottolineare il fatto che siano ben scritti, ma non lo è: il variegato mondo dell’editoria di oggi partorisce anche libri dimentichi di stile e grammatica. Navarra, invece, ha uno stile asciutto, misurato, incisivo ed usa un linguaggio elegante, seppur mai affettato.
Il suo genere è il romanzo giudiziario. Agli esterofili piace chiamarlo legal thriller, ma non è la stessa cosa. Il legal thriller nasce in un mondo anglosassone, dove vige un sistema processuale penale di stampo accusatorio, completamente diverso da quello che abbiamo noi; noi che, dopo cinquecento anni di inquisizione, all’accusatorio abbiamo a mala pena strizzato l’occhio; noi che siamo abituati ad un teatro processuale dove le indagini difensive di parte sono più un nome altisonante che una realtà e dove le prove, più o meno schiaccianti, sono affare da Pubblici Ministeri, i quali, a volte, assomigliano alla moglie gelosa di Groucho Marx: “sulla tua giacca non ho trovato capelli della tua amante, vuol dire che mi tradisci con una donna calva”. Nell’universo giudiziario italiano ci sono meno colpi di scena e maggiore lavorio curialesco.
È questo il mondo in cui Navarra ambienta i suoi libri, sullo sfondo di una Roma sorniona e complice, vittima e carnefice; sempre magnifica. L’avvocato italiano è un affascinante, colto esteta del diritto, curioso, furbo, fine dicitore in aula, coraggioso; è un profondo conoscitore del diritto, non chiama il giudice “Vostro Onore”, non si improvvisa investigatore solitario, non contratta derubricazioni improbabili od accordi di impunità. Ricordo quando lessi il primo libro di Scott Turow, anni prima del suo successo con Presunto Innocente. L’avevo acquistato da un venditore ambulante del Greenwich Village; si intitolava One L e parlava del suo primo anno di legge a Harvard. Non bisogna arrivare alle aule di giustizia per comprendere l’enorme abisso che divide il nostro mondo del diritto da quello anglosassone. Basta l’università.
Il cinema ci ha restituito spesso un’immagine poco edificante degli avvocati italiani, a cavallo tra ridicolo e comico, a differenza dei grandi avvocati della letteratura e del cinema anglosassoni: Gregory Peck ne Il Buio oltre la Siepe, Raymond Burr in Perry Mason, Paul Newman ne Il Verdetto. A volte sono eroi dell’arringa, angeli protettori degli ingiustamente processati, veicoli di giustizia. Altre volte sono esseri senza scrupoli, come lo stuolo dei collaboratori di Al Pacino ne L’Avvocato del Diavolo, dove conta più la carriera dell’anima. Le figure avvocatesche italiane, invece, vengono spesso rappresentate nelle loro più infime caratteristiche: Vittorio De Sica in Altri Tempi è un farabolone, un imbonitore; Mario Carotenuto in Febbre da Cavallo è un giocatore incallito che mette le corse prima della sua professione; Paolo Kessisoglou in Allora, mambo! è il classico avvocato senza scrupoli che, per soldi, fa di tutto, dalla truffa alla copertura delle attività illecite dei suoi assistiti. Non c’è niente da fare: fuori dall’Italia sanno vendersi meglio. Eppure, quando si incontra un avvocato di carta che racchiude onestà e fallace umanità, intelligenza ed ingenuità, un avvocato come il Gordiani di Navarra, l’Italia dimostra di saper partorire anche avvocati letterari che potrebbero, anzi dovrebbero diventare protagonisti di film di successo, in quanto perfettamente costruiti, anche sotto il profilo psicologico. Nulla da invidiare ai vari Grisham, Turow, Connelly o Clancy.
Da avvocato e scrittrice amo, dunque, non confondere il romanzo giudiziario con il legal thriller. L’unico aspetto che erroneamente non traduciamo nella definizione Italiana del genere è il brivido, contenuto nel verbo to thrill, ma nei romanzi di Navarra il brivido c’è: sottile, progressivo, ti porta per mano al culmine della storia. Anche senza il verbo to thrill, dunque, il romanzo giudiziario funziona; il brivido può benissimo restare sottinteso. Del resto, in quale buona narrazione di un delitto, a prescindere dal genere letterario cui appartiene, non c’è il brivido? Dai romanzi di Dostoevskij alle tragedie di Shakespeare, da La Verità di Pirandello alla monaca di Monza del Manzoni, ogni crimine ha il suo brivido, la sua strada accidentata da seguire con una torcia accesa nel cervello e la passione negli occhi, fissi sulla pagina scritta. Un noto psichiatra americano, Robert Simon, ha scritto un accattivante saggio di criminologia intitolato I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Il fascino del crimine colpisce chiunque, in buona sostanza, e fa vendere libri.
Michele è, per me, un collega ed un caro amico. È un doppio piacere, dunque, intervistarlo in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, A Dio Piacendo, edito da Novecento. È la sua quinta esperienza nella narrativa giudiziaria. Il primo romanzo che ha scritto è L’Ultima Occasione (Novecento Editore), cui hanno fatto seguito Per Non Aver Commesso il Fatto ed Una Questione di Principio (entrambi editi da Giuffré), e Solo la Verità (Novecento Editore).
Tanto per deridere un po’ la mia passione per il freddo, le basse temperature che stabilmente abitano la mia casa anche nel periodo estivo, grazie all’aria condizionata regolata sui 17°, si è presentato scherzosamente con la sciarpa ed il cappello con cui l’ho fotografato. E ciò può dare l’esatta misura di come si è svolta l’intervista, tra lazzi, risate, caffè, biscotti, battute calcistiche e letteratura.
Tu hai un personaggio ricorrente, nei tuoi romanzi giudiziari, l’avvocato Alessandro Gordiani. La scelta di creare romanzi che ruotino attorno alla stessa figura rientra nella tradizione giallistica classica, pensiamo a Poirot, Miss Marple, eccetera. Come mai questa scelta? È una scelta tecnica o ti è semplicemente piaciuto questo personaggio?
Come diceva Guzzanti, è la seconda che hai detto, credo, perché non c’è stata assolutamente una decisione anticipata, non c’è stato il progetto di un personaggio seriale. Sinceramente non sapevo nemmeno che avrei scritto il secondo romanzo, anzi non immaginavo nemmeno che avrei scritto il primo. È una cosa che è venuta furi un po’ di getto. Era molto tempo che stavo pensando a scrivere un romanzo, ma non sapevo nemmeno su quale argomento avrei focalizzato l’attenzione. Poi ho pensato di concentrarmi sull’unica cosa che conosco bene, ossia il mondo giudiziario, perché ci lavoro da tanti anni. Almeno, in questo modo, non avrei scritto scempiaggini. È nato, così, il primo libro, L’Ultima Occasione. In quel momento avevo cominciato a sviluppare un senso di disagio per la professione di avvocato, un disagio che si è prolungato nel tempo e che dipende da tutta una serie di problematiche relative all’affievolito prestigio di cui l’avvocato, oggi, gode presso la società, ma non è questa la sede per affrontare un simile discorso. Basti dire che questa persistente difficoltà personale si è tradotta nell’esigenza di creare un avvocato “di carta” in grado di dire quel che non può essere detto, di fare quel che non può essere fatto. È un personaggio e, come tale, posso crearlo pavido, coraggioso, titubante; posso farlo vincere o perdere. Poco importa. Nella nostra vita di avvocati gli errori si pagano sempre, non possono essere emendati. In un romanzo, invece, puoi sempre creare situazioni alternative; puoi, ad esempio, far emergere da un fascicolo il documento giusto al momento giusto, che modifica l’andamento dei fatti. Grazie al mio “avvocato di carta”, poi, mi sono tolto più di un sassolino dalla scarpa.
Ecco, dunque, che dal cappello a cilindro della tua professione e del modo originale e sottilmente critico in cui la vivi, è nato il primo libro …
Sì, il primo libro, come dicevo, è nato di getto e, quando è finito mi sono sentito felice, soddisfatto. Mi è piaciuto il libro, ma soprattutto il mio cammino per arrivare al libro; mi è piaciuto scrivere e, sull’onda di questa soddisfazione, ho iniziato a scrivere il secondo, che ho, poi, interrotto, perché il mio pragmatismo mi suggeriva di scrivere il secondo libro solo dopo aver pubblicato il primo. Non sono il tipo da tenere dieci romanzi nel cassetto, come fai tu. Io sento l’esigenza di scrivere se qualcuno mi legge.
A volte è bello anche scrivere per il solo gusto di scrivere, però …
È quello che dicono gli scrittori veri, a quanto pare. Io approccio la scrittura con determinazione e senso artistico, ma solo se ritengo possa portare a qualcosa. Ho ripreso a scrivere il secondo romanzo solo quando il primo era stato pubblicato e stava incontrando il favore del pubblico. Anche nel secondo libro il protagonista era lo stesso e, così, è iniziata la serie dell’avvocato Gordiani, sebbene i miei libri siano accomunati da questo personaggio ma siano tutte storie indipendenti.
La figura di riferimento per Gordiani?
L’avvocato Gordiani è una parte di me, o, quanto meno, è venuto al mondo come una parte di me. Oggi, probabilmente, a quasi dieci anni dal primo romanzo, il cordone ombelicale è stato reciso e Gordiani ha assunto caratteri che non mi appartengono. Forse è diventato quello che dovrei o vorrei essere. Scrivendo e leggendo di Alessandro Gordiani immagino un’altra persona, avulsa da me. Non so se sia effetto del tempo o di una naturale evoluzione nell’arte scrittoria.
Quando ero una giovane corrispondente de Il Corriere di Roma, nei lontani anni Ottanta, mi capitò di porre alcune domande ad Alberto Moravia. Mi sentii molto intelligente a chiedergli quanto di lui ci fosse nei suoi romanzi. Oggi comprendo il sorriso con il quale iniziò a parlarmi, un sorriso che palesava l’ingenuità della mia domanda. Mi disse “Tutto e niente, perché sono parti di me che si staccano da me per vivere la vita che io scrivo per loro” …
Ecco, Moravia l’ha detto sicuramente meglio di me e non posso che sposare questo concetto. All’inizio, nei personaggi, c’è molto dell’autore, ma poi vengono svezzati. Sta nel senso naturale delle cose: inizialmente si tende a scrivere di ciò che si conosce meglio, ossia di se stessi e del proprio mondo. E, ovviamente, lasciamo riposare in pace Socrate e gli altri filosofi che hanno dato valore al nosci te ipsum.
Tu come sei nella vita? Sei attento ai particolari, un investigatore dei fatti del mondo, oppure sei un distratto?
Di sicuro non sono un distratto. Forse non sono propriamente un investigatore, ma sono un curioso. Cerco sempre di andare in profondità. Accade da quando sono bambino. Voglio sempre capire il funzionamento delle cose, il loro perché. Anche a livello storico. Sono un grande appassionato di storia e credo che, attraverso lo studio della storia, si possa capire ed interpretare il presente. Del resto, tu, Raffaella, mi puoi capire bene, visto che sei una storica del crimine e scrivi libri su delitti ambientati in scenari temporali anche molto lontani dal nostro, trasformandoti in un’investigatrice tra documenti di cinquecento e più anni fa. Odio la superficialità, odio quelli che attraversano il mondo con una sorta di sordità emotiva. Io voglio capire le cose che entrano nella mia sfera di percezione; poi, non è detto che ci riesca, ma ci provo.
Sei uno scrittore di genere? Ti è mai venuto in mente di cimentarti in qualcosa di diverso?
È una domanda bellissima. Adesso come adesso sono uno scrittore di genere. Non sono un giallista. Molto spesso vengo inquadrato o venduto come giallista. Non scrivo gialli intesi in senso tradizionale. Nei miei romanzi non devi quasi mai scoprire “chi è l’assassino”. I miei sono gialli giudiziari, in cui sai chi è il colpevole o colui che si presume tale e l’avvocato deve difenderlo e trovare argomenti utili al proprio assistito. Certo, mi piacerebbe moltissimo cimentarmi in altri settori; ho in mente altre storie
… una anche in comune!
Esattamente! Tuttavia, anche nel nostro comune progetto lavorerebbe Gordiani, pertanto, sebbene in un contesto di più ampio respiro storico e di colpi di scena esoterici, sarebbe sempre un romanzo in linea con il genere finora trattato. Tra l’altro, lasciami dire che adoro quel progetto. Ce l’ho sulla scrivania di studio da quando lo ideammo. Magari non lo realizzeremo mai, ma …
Mai dire mai
Di sicuro, se non lo realizzeremo non sarà per colpa mia. Sei una trottola di progetti editoriali, hai dieci libri in lavorazione, fai la giornalista. E, poi, sei laziale: inaffidabile di principio.
E lo sapevo che sarebbe arrivata la critica calcistica! Sono laziale e, come seconda squadra del cuore, ho l’Inter
Di male in peggio, anche se peggio della Lazio è difficile …
Torniamo a te, Navarra. Al tuo essere scrittore.
Sono uno scrittore di genere, sì. La verità è che potrei anche provare a misurarmi con altri generi, con altri progetti, ma bisognerebbe studiare molto per addentrarsi in un ambito estraneo alla sfera di competenze personali. E studiare tanto rappresenterebbe un surplus di attività sostenibile solo se si hanno le spalle economicamente coperte. Con l’attuale situazione editoriale, come possiamo dedicarci solo alla scrittura? Bisogna mantenere l’altra fonte di guadagno, che è la professione forense. La gente crede che siamo miliardari perché abbiamo pubblicato con Giuffré. Vai a spiegare loro che devi avere dei numeri per farlo e che essere miliardari non rientra tra questi. Fatte queste riflessioni, appare evidente che non posso lanciarmi in progetti pindarici. Quando torno a casa, devo anche dare da mangiare alle mie due figlie.
La penna è strumento di avvocato come di scrittore. Che rapporto c’è tra i due?
Sono sicuramente due strumenti completamente diversi. La penna da avvocato è molto più rigida, nel senso che è l’avocato che si deve adeguare alla realtà oggettiva dei documenti che trova sul suo cammino; la penna dello scrittore, invece, è molto più elastica, perché è lo scrittore che inventa i documenti attraverso i quali si svolgerà il processo inventato. Quella dello scrittore è una libertà a 360°; è il sogno di ogni avvocato. È chiaro che, per quanto mi riguarda, scrivendo storie giudiziarie, un legame tra le due penne c’è: la penna dell’avvocato mi rende possibile prendere spunto dalla realtà. Anche in quest’ultimo romanzo, c’è un episodio di cui mi sono occupato una decina di anni fa. È un episodio tragico, particolarmente forte. Tutto quello che c’è intorno, però, i personaggi che io colloco sulla scena come protagonisti, sono completamente inventati. Gli avvocati scorretti, i pubblici ministeri sono di pura fantasia, completamente diversi dagli avvocati e dai giudici che ho incontrato, nella realtà di quel processo. In quel caso, infatti, ho incontrato solo persone squisite, sia sotto il profilo professionale che umano, perché hanno sempre rispettato il dolore della controparte; non hanno mai detto una parola fuori posto. Con alcuni di questi colleghi, che stimo profondamente, sono diventato davvero amico. Quindi, quando mi chiedono chi ci sia dietro l’uno o l’altro personaggio, sono sincero nel rispondere che non c’è nessuno. Lo spunto che prendo dal mio lavoro riguarda solo il caso oggettivo. Cambiare radicalmente il carattere, il modo di agire delle persone che vi hanno ruotato attorno era necessario anche per la dinamica stessa del romanzo, per amplificare la contrapposizione tra Bene e Male. In conclusione, la penna dell’avvocato e quella dello scrittore sono collegate, nel mio caso, ma una è più rigida e l’altra è molto più elastica.
William Huntington Wright, creatore di Philo Vance sotto lo pseudonimo di Van Dine scrisse un decalogo del romanzo poliziesco. Al punto n. 7 afferma: “Ci deve essere almeno un morto, in un romanzo poliziesco, e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio d’energia del lettore dev’essere rimunerato”. È vero anche per te?
Avevo già sentito questa regola del poliziesco: ne avevi parlato tu alla conferenza dell’Ordine degli Avvocati di Roma “Avvocatura e Società”, in cui entrambi eravamo relatori. Sin da allora mi ha fatto molto riflettere, mi ha messo il dubbio di non essere nella direzione giusta. Mi sono chiesto quanti morti ammazzati ci fossero nei miei romanzi: nel primo ce n’è uno; nel secondo anche ce n’è uno ed è abbastanza “morto ammazzato”
Forse più “morto ammazzato” del primo
Esatto! Nel terzo ce ne sono tanti; nel quarto, invece, non ce n’è nemmeno uno, c’è una bambina che nasce con dei problemi e la vicenda tocca la colpa medica; nel quinto, quello appena uscito, il morto c’è, ma non si sa bene se e come possa rientrare nella regola di Van Dine. In definitiva, non so se abbia ragione lui, se la morte violenta sia l’unica ragione per tenere incollato il lettore ad un libro. Io penso che oggi ci sia una superfetazione delle storie ad alta valenza criminale e, forse, proprio in omaggio a questo decalogo, anche se non tutti gli scrittori lo conoscono, si creano storie dove esiste un’abbondanza di efferatezze. Oggi non c’è più il pulp, c’è il super-pulp. Si deve parlare di spari in faccia, di ammazzamenti cruenti. Pensiamo a Romanzo Criminale e Gomorra, splendidi libri, ma particolarmente violenti. Sembra che, altrimenti, non si possa colpire l’attenzione di chi legge, come se fosse subentrata una narcotizzazione delle coscienze.
Questo anche perché la stampa si è molto sostituita al romanzo di fantasia, purtroppo. Le notizie non vengono solo riportate nella loro essenza oggettiva, ma divengono oggetto di “speciali”, di ricostruzioni con attori, di vere e proprie narrazioni investigative. Il delitto, sotto il profilo giornalistico, ha sempre pagato, la cronaca nera è sempre stata la più letta, ma oggi il crimine è totalmente spettacolarizzato. Forse questo può erroneamente indurre gli scrittori ad andare oltre.
Quindi tu dici che, se la stampa spettacolarizza il crimine, il romanziere tende a salire un gradino di più per colpire l’attenzione del lettore. Può darsi. Io so solo che esistono anche lettori affascinati dalle storie più che dai delitti. Sotto questo punto di vista rivendico un’originalità, se vogliamo. Non scrivo polizieschi; voglio solo parlare di un avvocato che si muove nel mondo della giustizia, un mondo dove l’omicidio può esserci, ma non sempre, non necessariamente. Soprattutto nel sistema italiano, completamente diverso da quello anglosassone di Turow o di Grisham. Tu, Raffaella, sei mai andata a sfondare porte, ad inseguire delinquenti?
Decisamente no.
Ecco, appunto! Neanche io. Le nostre indagini difensive sono solo una facciata; la nostra difesa si svolge in aula. Di fronte ad una deposizione raccolta da un avvocato, i giudici italiani storcono il naso, perché siamo un paese bizantino ed abbiamo bisogno di un timbro dell’Autorità che certifica l’autenticità dei documenti. In America la stenotipista del tribunale va a studio dell’avvocato a raccogliere la deposizione. Viene a studio pure da te, no?
Tutti i giorni.
Vedi? Noi addetti ai lavori riusciamo ad ironizzare sulle differenze col mondo anglosassone, ma il pubblico, che non conosce le aule di giustizia italiane, pensa che, senza stenotipisti viaggianti, senza escussioni testimoniali incalzanti, fatte passeggiando nell’aula e poggiando le mani sulla sbarra del testimone, non esista buona letteratura giudiziaria. La verità è che il nostro modo di fare l’avvocato è diverso ed un buon romanzo giudiziario deve tenerne conto. Scimmiottare gli americani non ha senso alcuno.
Raccontami un po’ la tua costruzione del dialogo, considerato che non ci sono solo raffinati salottieri proustiani, in un romanzo giudiziario. L’imprinting è quello del realismo.
Il dialogo è fondamentale, in un romanzo ed è anche la cosa più difficile da fare, per un romanziere. Molto spesso rappresenta il punto di discrimine tra il romanziere bravo e quello meno bravo. Io non ho mai creduto alle scuole di scrittura, onestamente. Non puoi andare a scuola per imparare a scrivere: o lo sai fare o non lo sai fare. Sicuramente, una delle fondamentali componenti della scrittura è il mestiere: più scrivi, più ti alleni a farlo e meglio scrivi, ma è comunque un qualcosa che devi avere dentro. Io posso allenarmi anche venti ore al giorno sul campo di calcio ma non sarò mai grande come Totti. Lo so, tu sei laziale e sto perdendo tempo con questo esempio …
Sempre il solito. Sono laziale ma conosco i campioni di tutte le squadre. E, comunque … Totti chi?
Questa battutaccia meriterebbe una giusta reazione verbale da stadio che non è il caso di avere, ma te la farò pagare presto. Scherzi a parte, la stessa cosa vale per la scrittura. Cerco di mantenere nel dialogo le esitazioni, la cadenza del dialogo reale. L’esitazione, che è così normale nel parlato comune, io cerco di trasferirla anche nel dialogo scritto, perché ritengo che chi legge debba avere la sensazione di ascoltare davvero quel personaggio parlare. Mi dicono che la mia scrittura, in alcuni casi, è cinematografica o televisiva. Lo dicono come complimento ed io lo prendo come tale, perché il dialogo deve rispecchiare la realtà, altrimenti, ingessandolo, diventa irreale
… e l’irrealtà decontestualizza
Sì, e non va bene. Se i personaggi si muovono, ad esempio, in una sala operatoria, devono parlare come parlerebbero nella realtà in uno stesso drammatico contesto.
Nella descrizione del colpevole, ti viene mai l’istinto del difensore? Tendi all’imparzialità o cerchi di costruire schemi difensivi?
Questo lo faccio sempre, ma non come deformazione professionale, bensì perché cerco di descrivere il personaggio anche a livello psicologico, offrendo al lettore il quadro completo delle possibilità. Non è questione di giustificare una condotta criminosa, ma di capire cosa c’è dietro. Solo in uno dei miei romanzi si parla di un omicida seriale e questo rende sicuramente più difficoltosa l’empatia difensiva. Tutto questo, peraltro, esula dal genere. Io credo che, chiunque scriva un libro e parli di un personaggio, che sia un onesto cittadino che paga le tasse od un delinquente incallito, ha il dovere di indagare le motivazioni del suo agire, ovviamente sempre senza imboccare troppo il lettore, lasciandolo spaziare con la fantasia.
C’è uno studio particolare dietro alla costruzione dei tuoi personaggi?
No; quanto meno non inizialmente. Di sicuro, non come te che fai centomila ricerche prima di scrivere una pagina. Mi ricordo che, una volta, mi dicesti che, per descrivere una scena in cui due uomini bevevano whisky, eri stata due ore a documentarti sulle diverse tipologie di whisky. Io pensai che, ormai, ci eravamo giocati Raffaella, perché, secondo me, non stavi bene …! Che tu sia secchiona è un dato di fatto, ma a volte esageri
Sei sempre pieno di parole lusinghiere. Dagli amici mi difenda Dio, come recita un vecchio adagio. Però … hai ragione: sono un po’ nerd.
No, in realtà ti ammiro molto, ma un simile studio lo trovo folle. In questo non sono come te. Ciò non implica che uno sia migliore dell’altro. Non esiste IL metodo, ma UN metodo. Ognuno ha il suo. Io, ad esempio, non ho mai fatto in anticipo un canovaccio dei miei romanzi. Della storia che inizio a scrivere, spesso non conosco neppure io la fine. Non so quello che succederà. Sembra una sciocchezza detta davanti ai pasticcini ed al caffè che mi hai fatto trovare, e di cui ti ringrazio anche se sono un attentato alla mia alimentazione, ma non è così. Dalla metà in poi, invece, l’idea si forma in modo compiuto, so dove sta andando la storia e comincio anche ad organizzarla. Stessa cosa dicasi per i personaggi. Spesso mi capita, in corso d’opera, di “sporcare” un paio di personaggi, talché quello che, ad esempio, era nato come timorato di Dio, alla fine fa delle cose discutibili, perché utili a rendere più interessante il suo ruolo nella vicenda.
Freud amava i romanzi di Conan Doyle. Vedeva in Holmes il prototipo dell’esteta furbo, intuitivo, un intellettuale moderno nell’accezione anche negativa di questo termine, ossia un focalizzato solo sulle competenze della sua specializzazione, fuori dall’ampiezza della cultura di stampo rinascimentale, per capirci. Anche Gordiani ha un buon tratteggio psicologico, è un avvocato esperto ed intuitivo e si muove nell’ambito delle sue competenze professionali. Pensi che Freud, se potesse leggere i tuoi romanzi, li amerebbe come ha amato quelli di sir Arthur?
Oddio, scomodare Freud per i miei romanzi mi sembra eccessivo. Di sicuro, cerco al mio meglio di approfondire psicologicamente i miei personaggi, ma sono sempre e comunque tipi antropologici comuni. Io non mi invento niente; non ho la pretesa di essere così originale da inventarmi delle tipologie di persone.
Quale libro hai sul comodino?
Ho appena finito di leggere un romanzo di Pennacchi, Canale Mussolini. È un autore che può non piacere, ma non si può dire che non sappia scrivere. Prima di Pennacchi, ho letto Il Cardellino di Donna Tartt. L’hai letto?
Sì
Che te n’è sembrato?
Bello, ben scritto, ma anche un bel brodo allungato
Brava! La pensiamo nello stesso modo. Tornando al libro sul comodino, io leggo un po’ di tutto, dal saggio al romanzo e, dei romanzi, molti generi.
Durante un’intervista (come vedi studio anche facendo la giornalista), tu hai detto che ti piace Stephen King
Sì, assolutamente sì.
Ecco, questo ci accomuna, perché anche io amo molto King e ho tutti i suoi libri.
Mi fa piacere saperlo; dovevano esserci più ragioni per la simpatia che nutro nei tuoi confronti, soprattutto considerato che sei laziale e, quindi, naturalmente antipatica. Non è facile trovare un estimatore di King come scrittore tout court e non come mero “re dell’horror”. Io sostengo che a Stephen King, prima o poi, verrà conferito il premio Nobel per la letteratura e, spesso, vengo schernito per questa affermazione da chi non ha mai letto i suoi libri. Un libro come It è molto più di un libro che narra una storia dai margini perturbanti, è un vero e proprio trattato di sociologia, un trattato sull’amicizia adolescenziale, sulla summa dell’esperienza. Anche sotto il profilo letterario, la sua capacità descrittiva, la sua introspezione psicologica, la sua caratterizzazione dei personaggi, sia maschili che femminili, sono perfette. Poi, certo, è spesso legato al genere horror, ma questo è un surplus. Stephen King è, prima di tutto, un grande scrittore.
E, poi, non ha scritto solo libri horror
Appunto! Pensa a Le ali della libertà, che è stato anche magistralmente portato sul grande schermo. Una storia straordinaria di cui, spesso, la gente ignora l’autore. Quando vidi il film, uscii sicuro che il racconto fosse di Stephen King anche senza averlo letto, perché c’era la sua firma. È un genio. Forse troppo prolifico, ma un genio.
Ti dirò, a me gli autori prolifici non dispiacciono, se hanno tanto da dire.
Lui da dire ha molto, senza dubbio. A mia figlia, per farla avvicinare alla letteratura evitandole i classici che tendono ad allontanare i giovani dai libri, le ho fatto leggere Wilbur Smith ed I Langolieri di Stephen King.
In alcuni momenti percepisco, nei tuoi romanzi, lo Stephen King assorbito, introiettato, digerito che hai in te. Ad esempio in Solo la Verità: “Alle otto e un quarto di mercoledì mattina, il dottor Lorenzo Rovaglia uscì dall’ospedale San Camillo canticchiando una canzone dei Queen. Nessuno l’aveva avvertito, perché nessuno se n’era accorto, che la sua piccola paziente aveva un colorito leggermente più scuro del normale …”. Ecco: la canzone canticchiata, l’incoscienza rispetto ad un episodio fatale che viene anticipato al lettore …
È proprio come dici tu: le letture, soprattutto quelle che emozionano ed arrivano in profondità, influenzano inconsciamente il modo di parlare e di scrivere. Grazie per essertene accorta.
Roma è il luogo di elezione dei tuoi romanzi. A parte il tuo deplorevole attaccamento alla squadra calcistica giallorossa, cosa, di questa città, attrae il tuo spirito letterario?
E due, lazialaccia …
E certo. Hai iniziato tu. Io perdono ma non dimentico …
Ti dirò, Roma è la mia città. La amo e la odio allo stesso tempo, come tutti i romani; una città che conosco e sconosco allo stesso tempo, come tutti i romani; una città a cui sono abituato e di cui mi accorgo veramente solo quando sto fuori. Ogni giorno camminiamo a Roma e non ci rendiamo quasi per niente della sua essenza, della sua bellezza, della sua storia. Quando sono fuori, invece, e vedo gente in fila per ammirare opere d’arte che a Roma si trovano ad ogni angolo di strada, mi rendo conto della sua grandezza. Ogni romano ha un rapporto viscerale con la sua città, ma noi scrittori bisogna che stiamo molto attenti ad “usarla”. Io uso Roma sempre e soltanto come sfondo, perché è troppo grande per qualunque scrittore, nessuno può permettersi di descriverla
Qualcuno c’è riuscito abbastanza bene: Stendhal, Goethe …
Io, però, mi chiamo Michele Navarra e preferisco prendere di Roma micro-pezzetti di strade meno note, senza ricorrere a stereotipi come il Colosseo od il Cupolone, perché mi bastano. Sullo sfondo è una città che c’è sempre: Roma che puzza, Roma caotica, Roma bellissima, Roma che canta sotto la luna, il Tevere schifoso che, però, se lo vedi ad una certa ora, ha un colore verde brillante che ti lascia allibito … Rendere protagonista la Roma monumentale non è possibile senza sbagliare in qualcosa. È troppa.
Dan Brown ci ha provato, ma, secondo me, ha fallito
Anche secondo me. Per chi conosce Roma, Angeli e Demoni, persino nella trasposizione cinematografica, è un romanzo di fantascienza. Entrano ed escono da Castel S. Angelo, come fosse niente; si introducono in chiese con i lavori di ristrutturazione in corso … Questa non è Roma, ma una sua caricatura che un americano può descrivere. In un romanzo americano funziona perché lo comprano gli americani che di Roma non sanno niente.
In realtà l’abbiamo comprato anche noi italiani, pur consapevoli delle immagini falsate della nostra città e della nostra storia.
Sì, ma è colpa della nostra esterofilia. Dopo il successo de Il Codice Da Vinci, pare che non si potesse non leggere il libro successivo.
Al contrario di noi, però, gli americani, se percepiscono situazioni falsate, boicottano anche un libro famoso, come accaduto allo stesso Brown con Il Simbolo Perduto, ambientato nei sotterranei della Casa Bianca.
Sono sicuramente più critici di noi, sulle cose che sanno.
Pamuk dice: “Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca dell’essere distinto che porta dentro di sé e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrittura, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o la tradizione letteraria, ma è una persona che si chiude in una stanza, si siede ad un tavolo e si ripiega in se stessa e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole”. Quanto “soffre” Michele Navarra quando scrive?
No, non soffro. Piuttosto, è vero il contrario. Sono felice, rilassato, stanco ma soddisfatto. Non sono uno di quegli scrittori tormentati, col whisky accanto ed una macchina da scrivere rumorosa al posto del computer.
A prescindere dalla tua professione legale, che mette il cibo in tavola, dopo cinque anni scrivere è diventato un lavoro, oppure è ancora l’isola-che-non-c’è?
È un mestiere. Spesso mi sento dire da colleghi che sono fortunato ad aver trovato una strada alternativa di guadagno e quando spiego loro che non c’è guadagno alcuno, rivoltano la frase dicendomi beato perché posso permettermelo, cosa falsissima. In verità, io non posso permettermelo, ma continuo a farlo per passione pura.
Ecco: passione e non guadagno. Vediamo il mondo dell’editoria. Il fenomeno Marcello Simoni, costretto a pubblicare in autoproduzione, senza seguito di pubblico, prima di mandare il libro all’estero in traduzione, e, quindi, sentirsi offrire, dalle stesse case editrici italiane che l’avevano rifiutato, contratti di edizione quando era ormai famoso.
Questo è sintomatico di un grosso disagio editoriale. In Italia, molto spesso, i grandi editori non leggono i manoscritti che giungono in redazione, non si dedicano alla scoperta dei talenti, lavorano solo sulle conoscenze, spesso politiche. Sono finiti i tempi di Leo Longanesi ed Arnoldo Mondadori. Vero che, anche nel passato, ci sono esempi di scarsa lungimiranza, come Vittorini che rifiutò Tomasi di Lampedusa o l’autopubblicazione de Gli Indifferenti di Moravia, ma il mercato editoriale italiano di oggi ha trasformato quelle eccezioni in regola ed è totalmente mummificato.
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Sulle note di quest’ultima risposta, che tocca lo scottante tema dell’editoria, saluto l’amico e scrittore Michele Navarra. È già pronto il suo sesto libro che, uscirà a breve. Naturalmente, accoglierò ancora l’Autore nel salotto di In Libertà per parlarne. Buona lettura a tutti.
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