Lavoro. L’investimento più idoneo per fronteggiare le crisi del mercato del lavoro è il finanziamento di politiche attive. In un precedente articolo abbiamo sottolineato che, secondo alcuni osservatori, tali politiche potrebbero essere finanziate anche con fondi Sure. L’acquisizione di prestiti Sure, infatti, libera risorse di pari importo già impegnate dagli Stati per la cassa integrazione o in strumenti analoghi. Tali risorse potrebbero essere indirizzate verso investimenti produttivi e la creazione di nuovi posti di lavoro.
L’operazione Sure potrebbe così trasformarsi da mera erogazione di sussidi in investimento duraturo nel tempo. Quello che recentemente l’ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha definito “debito buono”. In Italia, le politiche attive del lavoro sono un oggetto quasi sconosciuto. Esse comprendono tre aree: 1) Formazione professionale; 2) Orientamento al lavoro; 3) Incrocio della domanda e dell’offerta di lavoro.
Formazione professionale, dovrebbe essere l’anticamera della buona occupazione
La programmazione e il finanziamento della formazione professionale, in Italia, è di competenza delle regioni. Spesso le regioni delegano tale funzione alle province e/o alle città metropolitane. Così si è fatto nel Lazio. Il problema è che le province, dopo le riforme pre-crisi, sono ormai enti né carne né pesce. In base alla legge Del Rio avrebbero mantenuto solo le competenze relative all’istruzione tecnica secondaria e alle strade provinciali. Il resto sarebbero state le regioni a decidere se assumersi le competenze o attribuirle ai comuni.
Nel Lazio, tutto è ancora da decidere. Fatto sta che la città metropolitana di Roma, pur non avendo più organi politici eletti dal popolo, continua gestire tutto come prima. Il risultato è l’improvvisazione e la provvisorietà più completa. Poi c’è la gestione dei centri di formazione che sono pubblici e privati. Roma Capitale gestisce 9 CFP, localizzati principalmente in periferia. Alltri 6 li gestisce direttamente la Città metropolitana. Ne gestiscono altri i comuni di Anzio, Monterotondo, Valmontone e Tivoli. Vi sono, inoltre, circa 400 enti privati o scuole superiori accreditate. Insomma, se la formazione professionale non è lasciata al caos, poco ci manca.
Di fatto, le regioni finanziano soltanto l’obbligo formativo. Quello rivolto ai giovani al di sotto dei 18 anni e che dura tre anni. Poi i giovani possono scegliere se completare il quinquennio e prendersi la maturità nelle scuole tecniche (riforma Moratti). Ciò fa capire chiaramente qual è il destino voluto per il sistema della formazione professionale in Italia. Non l’occupazione degli allievi ma ingigantire il mare magnum della disoccupazione giovanile.
Perché è indispensabile l’orientamento al lavoro (COL)
La formazione per adulti è lasciata ai privati, con costi a carico degli allievi. Cioè proprio ai disoccupati o i sottoccupati. Basterebbe invece aprire agli adulti disoccupati tutto il patrimonio di competenze degli insegnanti e i laboratori didattici dei Centri ora riservati ai giovani studenti. Ciò darebbe concretamente ossigeno al disperato bisogno di formazione dei milioni di senza lavoro in Italia. Qui si innesta il problema dell’orientamento al lavoro.
Nel nostro paese, infatti, chi perde il lavoro quasi sempre non sa come cercarlo né cosa cercare. Le proprie competenze, formatesi nel ristretto bacino della precedente occupazione, non sono quasi mai spendibili per trovarne una nuova. Spetta ai Centri di orientamento dare una risposta. Roma Capitale gestisce 13 COL. Dopo la loro apertura, al tempo dell’amministrazione Veltroni, le successive amministrazioni ne hanno sempre più ridimensionato le funzioni e oggi vivacchiano nella semi indifferenza. Potenziarli – ma non solo a Roma, anche in tutta Italia – significherebbe svolgere veramente politiche attive del lavoro.
Nei COL, gli orientatori tracciano il bilancio delle competenze acquisite dal lavoratore nel corso della propria attività lavorativa. Ne mettono in luce i punti di forza e quelli di debolezza, suggerendo i modi per potenziarli e verso quali settori indirizzarsi. A questo punto dovrebbero intervenire in Centri per l’impiego (CPI), gestiti da province e città metropolitane. Tali enti si dovrebbero occupare dell’incrocio della domanda e dell’offerta di lavoro.
L’incrocio domanda offerta di lavoro non è più svolta dai Centri per l’impiego
In realtà i CPI, eredi dei vecchi uffici di collocamento, sono stati anch’essi depotenziati. Le aziende non hanno più l’obbligo di passare per i CPI per i loro fabbisogni occupazionali. Inoltre sono sorti miriadi di agenzie private, interinali e non, che hanno sostanzialmente stroncato l’attività del collocamento pubblico. Un’occasione per ridargli centralità doveva essere quella prevista nell’ambito degli sbocchi occupazionali dei fruitori di reddito di cittadinanza. In realtà è molto difficile costruire su macerie in Italia e, molto probabilmente, si è persa un’altra occasione.
Tornando alla formazione professionale, è necessario spendere due parole su quella definita “permanente”. Essa è rivolta ai lavoratori occupati ed è a carico dei datori di lavoro. Tutti i mesi, con il pagamento dei contributi obbligatori, le aziende versano una quota all’INPS corrispondente allo 0,30% della retribuzione come “contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria“. Da alcuni anni possono scegliere se destinare tali fondi alla formazione dei propri dipendenti in modo del tutto gratuito.
E’ però l’azienda a scegliere l’ente di formazione a cui affidare la riqualificazione dei propri dipendenti. Difficilmente scelgono i CFP pubblici o le scuole tecniche secondarie. Non tutte le aziende, inoltre, scelgono di destinare i fondi interprofessionali alla formazione permanente. Ciò che residua potrebbe veramente essere destinato dall’amministrazione pubblica al finanziamento di serie politiche del lavoro o alla formazione pubblica per adulti disoccupati. Se ne è sempre parlato ma, con un sistema frammentato come quello sopra descritto, il teorema è di difficile soluzione.
[…] fondata sul lavoro”. Il fenomeno rischia di provocare una bomba sociale. La mancanza di politiche attive del lavoro da parte dello Stato ne è uno dei motivi principali. Il decremento demografico ne limiterà […]
[…] professionalizzati spesso preferiscono emigrare all’estero. Soprattutto, sono rimaste ferme le politiche attive del lavoro, principalmente nel campo dell’incrocio tra domanda e […]
[…] Stato-regioni. Nonché quelli – più mirati – dall’Unione Europea. Finalmente, le competenze sul lavoro, lo sviluppo locale e la formazione professionale, nel territorio romano, saranno gestite da Roma […]