Al teatro Lo Spazio di Roma, cuori pulsanti e confessioni maledette

29 maggio. Al teatro Lo Spazio di Roma è in scena Occhio al cuore di Emiliano Metalli, con Mauro Toscanelli, che cura anche la regia, e Bruno Petrosino. Una splendida pièce d’impatto che conferma Lo Spazio come un tempio di voci teatrali che hanno molto da dire.

È un dramma liberamente tratto da uno dei racconti più intimistici di Poe, The Tell-Tale Heart (Il cuore rivelatore, o, in traduzione Einaudi, Il rumore del cuore); un racconto brevissimo e pregno di materiale umano ancor prima che narrativo. Ed è proprio sul materiale umano che Metalli ha voluto concentrarsi, a partire dalla forma comunicativa, cromatica e musicale oltre che verbale.

La scenografia irrompe e crea una realtà che va oltre il narrato, oltre il detto; riproduce il manicomio interiore. Il colore rosso genera la memoria inconsapevole della carnalità, del sangue, del fuoco, dell’inferno. Ognuno ha il suo. Abitiamo tutti in un inconscio che è lava pura.

Anche la musica entra a comunicare stati d’animo: a volte serena, altre incalzante, martellante, altre ancora meramente immaginata dietro le parole delle canzoni accennate dai protagonisti; parole che entrano nell’ordito narrativo.

Il dialogo, poi, in alcuni punti sembra muoversi su righe appositamente storte. Iconograficamente lo immagino scritto su un quaderno dove le frasi si intersecano le une con le altre: vocali e consonanti in comune vogliono raccontare il mondo sotterraneo, quello celato, affogato nell’anelito ad una vita come le altre. Ma non si vive mai come vivono gli altri. Ognuno ha la sua normalità diversa dalle altre normalità; la sua follia diversa dalle altre follie. E la follia sa urlare; riesce a farlo anche con il silenzio. Forse perché il silenzio è tutto e il contrario di tutto: nel silenzio si celano torti e ragioni, pensieri giusti e sbagliati; nel silenzio possiamo permetterci di non sapere ma soprattutto di non spiegare. E, a volte, non spiegare è la forma più sottile di violenza. Non spiegare agli altri e non spiegare a noi stessi. Ebbene, in Occhio al cuore i silenzi urlano: il dramma è concentrato anche nelle spiegazioni mancate che dividono mente e anima. C’è una forte tensione mimica. Toscanelli emoziona in alcune pose ieratiche; pose che incidono l’attenzione come il coltello la carne. Vi sono momenti in cui la scena si ferma e potremmo metterla su un cavalletto, perché si fa quadro: il dipinto tragico di una realtà tragica macchiata di grottesco. Toscanelli e Petrosino si offrono generosamente al pubblico. Anche laddove avrebbero potuto chiudersi, escono allo scoperto, lasciano che il pubblico veda la costante metamorfosi che subisce il pensiero dell’anima.

Aleggia una sorta di turbamento, in platea, di paura, di pensieri sull’originalità assoluta dell’essere umano, che potrebbe non essere compresa, potrebbe essere additata come follia. L’uomo, in fondo, non è altro che il sindaco in una città di ombre interiori e, di fronte alla follia, siamo tutti come l’Enrico IV di Pirandello, ci poniamo la fatidica domanda: sono io il pazzo o chi asseconda la mia pazzia?

È la libertà del folle a contare veramente; quella del Matto shakespeariano, che è sempre se stesso, che dice sempre quello che pensa senza chinare il capo alla convenienza, ma donando a se stesso e agli altri non già la verità, perché di verità ce ne sono molte, ma la sincerità, dea incompresa. Sotto questo profilo ad essere folli sono solo gli uomini veramente liberi, quelli che vivono al di là del concetto del bene e del male.

“La pazzia rende la vita tollerabile” scriveva Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio.

Il protagonista del racconto di Poe, da cui sgorga l’idea di Occhio al cuore,rivendica il diritto alla sua normalità, una delle tante normalità. In questo assomiglia agli assassini di Max Aub, quelli di Delitti esemplari: vive una condizione che impone l’assassinio, vero o fittizio che sia.

Anche Natalia Ginzburg, in È stato così, ha esplorato una mente situata nell’altro lato della realtà, quello dove il gesto folle è il più ovvio. L’incipit è potente, devastante: “Gli ho detto: – Dimmi la verità – e ha detto: – Quale verità? – e disegnava in fretta qualcosa sul suo taccuino e m’ha mostrato cos’era, era un treno lungo lungo con una grossa nuvola di fumo nero e lui che si sporgeva dal finestrino e salutava col fazzoletto. Gli ho sparato negli occhi”.

Stesso può dirsi delle prime parole de Il rumore del cuore di Poe: “Sì, è vero! Sono stato sempre, sono tuttora nervoso, straordinariamente nervoso; ma perché mai mi volete pazzo?”.

Ebbene l’inizio di Occhio al cuore è parimenti efficace.

Siamo in una macelleria. La vita entra a pezzi, sezionata, affettata, raccontata attraverso i diversi tagli che si ottengono dalla lacerazione del muscolo, dalla frantumazione delle ossa. Si sovrappongono sin dall’inizio il piano mentale e quello fisico: si sottolinea che anche il cuore è un muscolo, si immagina della carne in più nella cella frigorifera, si parla di scena del crimine. Ma quale crimine? C’è un filo conduttore psicanalitico che lega il macellaio all’apprendista e l’apprendista al suo amico Marco che, come una crisalide a metamorfosi compiuta, diventa farfalla nelle vesti di Lavinia, una farfalla triste, forse, ma profondamente serena nella sua dimensione scelta, voluta, vissuta e non imposta da una natura beffarda; un filo conduttore che lega l’apprendista ad un padre assente, ad una madre ingombrante, ad uno “zio” inquietante, ad un desiderio che si fa ossessione, ad una luna che si rivela l’occhio del cielo. L’occhio è il simbolo delle cose viste, anche se nascoste. Mi piace l’accostamento dell’occhio di Poe alla luna: da un lato la Casta Diva di Bellini che inargenta il mondo, e, dall’altro, l’occhio divino onnipresente, onnisciente. In entrambi i casi espressione di potenza e soggezione. In effetti siamo tutti soggiogati da ciò che di noi si vede e da ciò che nascondiamo e che temiamo si veda. Il rapporto dell’uomo con il resto del mondo dipende da quanto a fondo può andare l’occhio altrui, da quanto si può essere denudati dallo sguardo di chi giudica. Anche il rapporto dell’uomo con se stesso e con il concetto di Dio celato nella sua coscienza dipende dall’occhio, il proprio. Siamo quello che vediamo? Riusciremo mai a denudarci veramente per essere noi stessi? Sotto questo profilo anche la scelta dei costumi ha il suo ruolo, in Occhio al cuore.

Il protagonista del racconto di Poe, al pari di quello della pièce, è un uomo ingabbiato all’interno di se stesso, è un uomo solo, anche quando è in compagnia; è tante cose, ma rifiuta di essere un pazzo. È un’anima folle in un suo mondo dove la follia si colloca come normalità. E l’ottima interpretazione di Toscanelli e di Petrosino accompagna il pubblico sul palcoscenico. Tutti ci sentiamo ingabbiati, tutti ci sentiamo soli, tutti ci sentiamo pazzi e tutti, proprio tutti, rifiutiamo di esserlo.

È così che il gioco del teatro trionfa.

Com’è che si diceva da piccoli? “Facciamo che io sono …. e tu sei ….” e si iniziava a giocare. Sotto questo profilo il teatro è un ritorno all’infanzia e, come tutte le cose che riguardano l’infanzia, è una magia, un esperimento quantistico che consente di viaggiare nel tempo e nello spazio, ma soprattutto dentro e fuori l’essere umano, nel microcosmo delle sue passioni, delle sue paure, dei suoi furori e dei suoi sorrisi, dei suoi errori. Sotto questo profilo è perfetta la sintonia tra il teatro e la narrativa di Edgar Allan Poe. Un introibo immediato, il suo: il lettore entra subito nelle sue storie, ne resta coinvolto. Eppure, fu un Autore dalla fortuna alterna.

Tennyson riteneva che fosse un genio assoluto, Emerson lo definì “l’uomo dei cattivi versi”; Paul Valery ammirava il lirismo della sua poesia mentre Henry James si stupiva del suo successo, dovuto, secondo lui, ad “un livello intellettuale decisamente primitivo”. Di sicuro ha sempre diviso pubblico e critica: tutti avevano qualcosa da dire sul suo curriculum, quasi fosse una cartella clinica in un ospedale affollato di dottori, come scrisse Emilio Cecchi con impareggiabile ironia. Nessuna via di mezzo: odiato o amato, criticato o lodato. Ha comunque segnato la sua epoca, riuscendo a giungere indenne nella nostra. La sua vita non è stata da meno: affascinante per alcuni, modello di depravazione per altri. Griswold ne fece addirittura un mostro seguace del Demonio. Di sicuro è stato un maestro nell’esplorazione del lato oscuro della vita.

Nel racconto di Poe da cui Metalli ha tratto ispirazione per Occhio al cuore, la fruttifera legge del sangue si muove sul binario dei sensi di colpa. Che siano fittizi, come quelli di Alfredo Traps ne La Panne di Dürrenmatt, o reali, muovono spesso verso un meccanismo autodistruttivo e liberatorio al contempo, che Reik ha magistralmente definito impulso a confessare.

L’incontro tra Edgar Allan Poe e il teatro è tardo. Solo nel 1983, grazie all’attore Norman George, inizia l’attenzione del palcoscenico per le sue opere. George ha lavorato molto sulla caratterizzazione dei personaggi, studiando a fondo non solo gli scritti di Poe ma la sua vita, tanto da dare al dialogo sfumature gergali. E il dialetto entra anche in Occhio al cuore, rendendo più immediato il linguaggio dell’anima. Petrosino, con grande maestria, dà vita ad un personaggio perfettamente pasoliniano, con più domande che risposte, fino alla fine.

Sì, l’incontro tra Poe e il teatro è arrivato tardi rispetto al cinema, ma è ormai diventato un appuntamento atteso. Guardando anche solo all’Italia, sono stati moltissimi, negli ultimi anni, gli spettacoli tratti dalle sue opere e Occhio al cuore conquista a pieno titolo un posto nell’Olimpo delle interpretazioni più originali.

Nella riduzione di Metalli si legge la volontà di stigmatizzare una vitalità sofferta, una fobia misconosciuta, una realtà sotterranea, tanto presente per l’uomo quanto inesistente per il mondo. Nell’universo dell’arte teatrale, egli disegna un luogo di mezzo tra mondo esteriore e mondo interiore, un luogo dove movimenti e parole assumono differenti connotazioni e il pubblico è chiamato a trovare le proprie in base all’autoanalisi. Mi ha fatto tornare alla mente Racconti fantastici, uno sceneggiato tv del 1979 con Philippe Leroy: ambientato nella casa Usher, questo pot-pourri di racconti di Poe ha tratti psicanalitici marcati. Stesso dicasi per Occhio al cuore, dove tutto, ogni parola del testo, ogni particolare della scena, ogni gesto degli attori, ha una sua precisa collocazione nella griglia della storia; una storia in cui follia e normalità  – ammesso che abbia un senso parlare dell’una o dell’altra –  vivono in simbiosi.

Freud ci ha insegnato che noi siamo anche in ciò che cattura la nostra attenzione, siamo nelle diverse parti dei nostri sogni e dei nostri incubi, siamo nella figura paterna e in quella materna che la mente ci restituisce. Poe ci ha insegnato che siamo vittime e carnefici, che siamo vivi e morti, che siamo gli opposti e che la coscienza ha un suo linguaggio che non conosce parole, ma materializza rimorsi o, forse, cerca vitalità attraverso il cupo, sordo rumore di un cuore che batte. Bisogna ascoltarlo. Bisogna prestarvi attenzione. Scandisce il tempo della vita e quello della mente. Occhio al cuore!

Info: Teatro Lo Spazio

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