Viaggio nel racconto italiano del Novecento: Un condannato a morte di Emilio De Marchi

libri - novecentoL’arte del racconto è sublime: con poche pennellate verbali, viene narrata una vicenda e descritto l’intimo dei personaggi, viene racchiuso un intero universo. In poche pagine si condensano fatti ed emozioni, pensieri e sentimenti. Difficilissimo mantenere il giusto equilibrio tra gli uni e gli altri. Non basta il dono della sintesi. E’ necessario che alla brevità si unisca la capacità di scrivere, altrimenti ci ritroveremmo di fronte a meri sunti di libri mai nati.

Scopriamo insieme, dunque, quest’arte ingiustamente desueta, attraverso una lettura critica di alcuni tra i più significativi racconti del Novecento italiano, in una retrospettiva dedicata ogni mese ad un diverso autore.

Lo spazio è tiranno, però. E’ mio compito indagare in poche righe l’essenza dell’opera, offrendo la mia chiave di lettura, nella speranza di stimolare molte altre interpretazioni e molti altri approfondimenti. 

Un condannato a morte 

Potrebbe suonare errata o, forse, solo frutto di disattenzione la mia scelta di esordire con un racconto ottocentesco in una rubrica sul Novecento letterario. Non è così. Emilio De Marchi, autore per il quale la sottoscritta non cela una grande simpatia, scrive, è vero, alla fine dell’Ottocento, ma, nel suo verismo sui generis, intriso di etica manzoniana e di attenzione alla piccolezza di una quotidianità che dell’Ottocento non ha più nulla, se non sentimenti in disfacimento, si affaccia tutta l’ansia della realtà novecentesca.

La sua prosa morbida lo rende cantore di una quotidianità che lotta ogni giorno tra animi grandi e vili, tra dramma e farsa, entrambi inscindibilmente uniti nella vita: è mirabile, infatti, la sua vena di sarcasmo, di umorismo, spesso compenetrata nella tragedia. I suoi personaggi non sono dei “vinti” nel senso veristico del termine, quanto piuttosto degli “umili” che navigano nelle avversità della vita, a volte cedendo ad esse, a volte fronteggiandole. I suoi sono personaggi spesso impigliati nell’ingranaggio malevolo di una realtà dura dalla quale non sanno uscire.

Ebbene, in questo racconto, è tutto il suo delicato disincanto.

Emilio De Marchi

Emilio De Marchi

Il ritmo della prosa è, qui, un galop: inizia con una lenta rinascita; termina con una corsa folle verso il nulla. Carlo Dieti, dedito al giuoco d’azzardo, contrae debiti e, preda della disperazione, decide di sottrarre soldi dalla cassa del negoziante per cui lavora. Dopo il primo anno di carcere il dramma più nero si abbatte su di lui: un biglietto gli annuncia che la sua splendida moglie, lasciata incinta dopo l’arresto, è, nel frattempo, morta per il dolore, portando seco la loro bambina appena nata. Schiacciato dal senso di colpa, Dieti diviene un fantoccio senza fili, portandosi il carcere dentro anche quando viene liberato. In quell’occasione, il direttore gli elargisce qualche soldo ed una lettera di presentazione da dare all’avvocato Lesti, suo amico, che, contrariamente alle aspettative, si rivelerà solo la prima di una catena di persone che scaricheranno Dieti sulle spalle di altri, rivelando una pochezza d’animo senza pari. E’ raffinatissimo il modo in cui De Marchi descrive quella capacità, che solo i malvagi hanno, di far sembrare un favore quel che è un rifiuto! Il Lesti finge d’aver dato quella mattina stessa il posto di segretario ad un altro e scrive una lettera al commerciante Sirchi, raccomandandogli Dieti; Sirchi, a sua volta, si libera di lui indirizzandolo dal ragioniere Banotti; Banotti lo liquida, chiedendogli l’indirizzo qualora decidesse di ricontattarlo. Dieti, che non ha casa, pur sapendo bene che Benotti non lo cercherà, lascia l’indirizzo dell’abitazione che condivideva con la moglie prima dell’arresto; l’indirizzo della sua altra vita, del suo passato e vi si reca per chiedere al portiere di ricevere la sua posta. Ottiene molto di più: l’antiquario che abita nell’appartamento che era stato il suo gli propone di lavorare per lui. De Marchi realizza una sorta di “catarsi inversa” attraverso un luogo: quella casa riaccoglie Dieti, ma, invece di offrirgli una seconda chance, gli sottrae definitivamente il futuro, facendo rivivere i fantasmi del passato attraverso una contorta linea di coincidenze. E’ uno strozzino, il vecchio antiquario, e gli serve qualcuno che vada a ritirare le quote che i suoi clienti gli devono, od, in alternativa i valori che intendono impegnare. Dieti ha bisogno di lavorare, di mangiare, non può permettersi di sdegnare il compito affidatogli per quanto infimo e sozzo si presenti.

E’ così che si reca a casa di una donna che avrebbe dovuto dare in garanzia i suoi braccialetti d’oro per trenta lire. De Marchi, con piglio quasi cinematografico, descrive quell’incontro come un terremoto, un capovolgimento del cielo e della terra, poiché il buon Dieti si avvede che trattasi della moglie. La loro bambina è nata morta, glielo conferma, ma lei, ben sopravvissuta allo scandalo, si è finta morta ai suoi occhi: il rifiuto più grande. Il pover’uomo fugge di lì, senza prendere il braccialetto della donna, senza lasciarle le trenta lire dell’antiquario; fugge senza una meta, preda di un delirio sempre più pressante. E’ la parte culminante del galop narrativo: l’uscita dalla città ed il vagolare sulla terra scoscesa lungo il fiume.

Le ultime righe, dopo la tempesta emotiva, sembrano riportare una calma piatta, fatta di sentimenti inesistenti, di biechi interessi, di vite che non conoscono altre vite al di fuori di se stesse. De Marchi, infatti, sempre velatamente manzoniano, non ci risparmia il suo giudizio morale, che dissemina nei messaggi che chiudono il racconto: il direttore di carcere giustamente rimprovera l’avv. Lesti per non aver dato aiuto a Dieti e Lesti dà inizio ad una catena di meschini messaggi. Rimprovera, infatti, il commerciante Sirchi per non aver ottemperato alla sua richiesta; Sirchi, a sua volta, rimprovera il Banotti; ed è l’antiquario a chiudere quel trionfo di disumanità e di coscienze lavate con poco, perché il suo pensiero più afflitto va a quelle trenta lire, le sue trenta lire, che Dieti aveva in tasca. Non posso non pensare al numero, poco causale. Trenta lire. Trenta denari. Un prezzo noto per tradire od essere traditi.

1 risposta

  1. Ersilia

    Splendida occhiata nel nostro recente passato letterario che troppo spesso dimentichiamo. Enfatizziamo autori contemporanei che valgono la metà di un De Marchi. Qualcuno sa indicarmi dove posso trovare i racconti di questo autore? Ho cercato in libreria, ma trovo solo i suoi romanzi.
    Grazie.
    Non vedo l’ora di leggere il prossimo articolo.

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