Viaggio nel racconto italiano del novecento: Il Sassella del Quarantotto

IMG_6893L’arte del racconto è sublime: con poche pennellate verbali, viene narrata una vicenda e descritto l’intimo dei personaggi, viene racchiuso un intero universo. In poche pagine si condensano fatti ed emozioni, pensieri e sentimenti. Difficilissimo mantenere il giusto equilibrio tra gli uni e gli altri. Non basta il dono della sintesi. E’ necessario che alla brevità si unisca la capacità di scrivere, altrimenti ci ritroveremmo di fronte a meri sunti di libri mai nati.

Scopriamo insieme, dunque, quest’arte ingiustamente desueta, attraverso una lettura critica di alcuni tra i più significativi racconti del Novecento italiano, in una retrospettiva dedicata ogni mese ad un diverso autore.

Lo spazio è tiranno, però. E’ mio compito indagare in poche righe l’essenza dell’opera, offrendo la mia chiave di lettura, nella speranza di stimolare molte altre interpretazioni e molti altri approfondimenti.

Il Sassella del Quarantotto

Mario Soldati, soprattutto nei racconti, parcellizza se stesso anche laddove non siano storie autobiografiche. Ancor più, pertanto, lo ritroviamo negli scritti che narrano esperienze vissute personalmente. Rientra, in qualche modo, nella religiosità sui generis che ha sviluppato, dividendosi tra l’esperienza scolastica con i gesuiti e la vita universitaria torinese e post universitaria a New York, una vita fatta di tante diverse esperienze, humus fertile per la sua capacità di osservazione, di analisi, di introspezione, di trasformazione del vissuto in storia.

Nella trilogia di racconti autobiografici Vino al vino, Mario Soldati compie un tour tutto italiano alla scoperta dei grandi vini, raccontati insieme alle esperienze del viaggio, all’esito delle sue ricerche, ed ai suoi pensieri. Un reportage enologico e di vita.

Ho scelto questo episodio, il quinto del secondo volume, perché unisce la passione per il viaggio, per il vino e per le storie, con la sua formazione letteraria.

E’ Carducci che idealmente lo accompagna in questa tappa del viaggio. Vediamo come.

Nel 1888, durante la villeggiatura estiva, Giosuè Carducci si recò in Valtellina. In occasione del suo compleanno, che cadeva a fine luglio, il padrone dell’albergo in cui alloggiava, tal Agostino Ciocca, si unì agli amici del poeta per giocargli uno scherzo: sull’etichetta del Sassella, ordinato da Carducci, fu modificata la data ed il 1884 divenne 1848, l’anno dei moti risorgimentali, ai quali Carducci avrebbe tanto voluto partecipare, impedito a farlo dal fatto che aveva solo tredici anni.

Alla vista di quella data si accesero in Carducci tanti di quei pensieri patriottici ed appassionati da annebbiare le sue pur raffinate cognizioni enologiche. Un Sassella di quarant’anni, infatti, era improbabile che si trovasse e che avesse quel sapore! Eppure non ci fu nulla da fare: per il poeta quella bottiglia arrivava dai giorni di rivoluzione e portava con sé il magma di sentimenti e di commozione che il loro ricordo suscitava.

Ed ecco che, da questa breve introduzione storica di tipo saggistico, Soldati salta al racconto, calandosi in quell’epoca, sedendosi al desco di Carducci, condividendo con lui quel vino dall’etichetta falsa ma dal sapore genuino: “Appena vide quella data sull’etichetta, e prima ancora che si ponesse mano al cavatappi, Carducci sentì un nodo alla gola, e gli occhi gli si empirono di lacrime. Mi pare di udire la sua voce Toscana, esplosiva e squillante, incrinarsi come sopraffatta dalla commozione: o che? De i’ quarantotto?!”

Il Carducci che ci descrive è un uomo estasiato, rapito da quel momento, da quel sapore, da quel vino che arrivava da lontano, da un tempo di eroismo e di amor patrio che avrebbe voluto condividere combattendo. Nasce così una delle sue più famose odi intitolata A una bottiglia di Valtellina del 1848.

Ora il racconto si fa più intimistico, diventa quasi un dialogo con se stesso nel pensare cosa accadde dopo che i primi versi presero vita, trovando fine a Bologna il 21 gennaio dell’anno seguente. Probabilmente nessuno degli amici, né l’albergatore ebbero il coraggio ed il giusto modo per confessargli lo scherzo e quel vino restò una Musa del ’48, per il Carducci.

Abbandonato il saggio ed il racconto, lasciate volare via, lievi come un velo, le considerazioni personali, Soldati approda al resoconto autobiografico del viaggio, nella conclusione di quest’episodio: “Noi, però, non poeti, che cosa possiamo se non tenerci per noi, e per gli amici più cari, il ricordo di un momento di gioia, misterioso e passeggero, che un vino vero ci ha dato?”

In poco meno di tre pagine Mario Soldati scrive un saggio, un racconto, un’epistola al suo pubblico. È questo, dunque, uno dei più fulgidi esempi di quanto egli fosse in grado di padroneggiare diversi generi narrativi al punto da mischiarli, renderli qualcosa di nuovo, di peculiare, tra verità del dato storico e fantasia del romanziere, il quale riempie gli spazi oscuri con introspezione psicologica, immedesimazione ed una fantasia distillata, incapace di distorcere i fatti realmente accaduti.

In questo come negli altri brevi racconti autobiografici di Vino al Vino, Soldati ci fa viaggiare con lui lungo un’Italia piccola e pur gigantesca, fatta anche di antichi aromi e sapori, ma soprattutto di storie, in parte vere, in parte romanzate, tutte capaci, comunque, di viaggiare nel tempo; un tempo lontano, un tempo vicino all’autore, un tempo vicino al lettore, anche quello di oggi, il quale, rispetto al tempo in cui Soldati scriveva, rappresenta il futuro.

Certa letteratura, pur se non baciata dalla diffusa notorietà dei grandi premi letterari, resiste ad ogni intemperie.

di Raffaella Bonsignori

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