Riforma costituzionale: dove ha sbagliato Matteo Renzi

renzi_sole24oreL’ennesima “scelta di campo” sottoposta al voto degli italiani, con il referendum sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento, ha avuto esito negativo per il governo di Matteo Renzi, il quale, già a mezzanotte, ha annunciato ai mass-media che, in giornata, sarebbe salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni nelle mani del Presidente Mattarella.

Il risultato – oltre il 59% dei no – è stato anche superiore a quello prospettato dagli ultimi sondaggi diffusi e a quelli dei primi exit poll che accordavano comunque un 54-55% al voto contrario alla riforma. Ai tempi della Prima Repubblica, tuttavia, il perdente avrebbe sicuramente sostenuto di aver comunque conseguito un risultato positivo. Magari andando a sottolineare che i 13,4 milioni di sì superano di oltre 2 milioni i voti del già trionfale risultato del PD – unico partito a sostenere la riforma – alle elezioni europee del 2014 e che, in tal senso, anche la “fronda” interna dei bersaniani e dei dalemiani abbia partorito il classico topolino.

Anziché sostenere ciò, Renzi ha ammesso la sconfitta, senza però rinunciare alla battuta, da buon fiorentino purosangue: «Volevo cancellare le troppe poltrone della politica italiana. Non ce l’ho fatta e allora la poltrona che salta sarà la mia!» L’ex sindaco di Firenze sa di essere ancora un giovincello (42 anni), per la politica italiana e di avere davanti a sé una sterminata marea di tempo per tornare in auge; nel frattempo, lascia ai suoi avversari l’onore e l’onere di mandare avanti la baracca. Come ha già fatto a Roma, giubilando Marino.

Detto ciò, andiamo a chiederci dove e quando ha sbagliato Matteo Renzi, nel proporre agli italiani questa “scelta di campo”.

La prova di forza

La riforma costituzionale sottoposta ieri a referendum, nasce in base a un accordo con il centro-destra di Berlusconi, in coerenza con l’assunto: «in democrazia, governano le maggioranze ma le riforme si fanno insieme». E, infatti, in prima lettura, anche Forza Italia votò a favore. Poi, però, vi fu la denuncia del “Patto del Nazareno” e Berlusconi si tirò fuori.

Fu allora che Renzi tentò la “prova di forza” del referendum confermativo, rimangiandosi la frase «le riforme si fanno insieme». Questo perché, in Parlamento, senza Forza Italia, non sarebbe stato possibile ottenere i 2/3 dei voti favorevoli, in seconda lettura, per evitare la consultazione popolare. Lo sbaglio è stato proprio ciò: il premier avrebbe dovuto capire che avrebbe avuto tutti contro e che ottenere il 50% + uno dei voti favorevoli, con solo il suo partito alle spalle (e nemmeno al gran completo!), sarebbe stata un’impresa disperata.

Una riforma troppo complessa

Avrebbe potuto vincerla lo stesso, in qualche modo, la sfida, Matteo Renzi? Forse sì; ma avrebbe dovuto ridurre il quesito a pochissime voci essenziali e, probabilmente, anche spacchettarlo. La riforma, infatti, si è rivelata troppo complessa, per l’italiano medio che, abituato ai troppi “trabocchetti” della politica e del fisco italiano, per non saper né leggere né scrivere, ha preferito farne a meno.

Quali sarebbero stati i quattro punti che tutti avrebbero capito e sui quali Renzi avrebbe ottenuto un plebiscito? Iniziamo dai primi.

Riduzione del numero dei parlamentari. Se si fosse spalmato il numero attuale dei deputati (630) tra Camera e Senato, riducendo quello complessivo; proponendo, cioè, 320 parlamentari in meno ma mantenendone l’elettività effettiva, chi avrebbe votato no?

Riduzione dei compensi dei rappresentanti regionali a livello di quello del Presidente del Consiglio e abolizione del CNEL. Anche su questi due punti ci sarebbe stata l’unanimità.

Su queste basi incontestabili, Renzi avrebbe dovuto aggiungere il nocciolo della questione: la fine del bicameralismo perfetto. L’articolo 70 della Costituzione, così come era stato modificato nella riforma bocciata, non lo ha capito nessuno. Probabilmente, infatti – come ha giustamente fatto rilevare Marco Travaglio – era incomprensibile.

Bisognava limitarlo, prevedendo, in capo al Senato, il solo potere di “veto sospensivo” sulle leggi, e riservare alla Camera dei Deputati il potere di accordare la fiducia al governo e di votare le leggi di Bilancio. Questo perché già la Costituzione del 1948 prevede l’elezione dei senatori su base regionale, mentre quella dei deputati è su base nazionale. Sarebbe sorto un sistema simile a quello inglese che, dopo la Brexit, è tanto di moda anche tra gli anti europeisti.

Spacchettamento

L’abolizione delle Province e la riconduzione di alcune funzioni essenziali, dalla potestà regionale a quella statale – tanto cara al premier dimissionario, se la si voleva mantenere, doveva far parte di una seconda legge costituzionale, “spacchettando” la proposta iniziale. In tal modo, i referendum “confermativi” sarebbero stati due, mantenendo, però, per entrambi, la semplicità dei quesiti da sottoporre ai cittadini.

E’ parere di chi scrive che, su queste quattro modifiche semplici-semplici della Costituzione, le armi degli tutti gli oppositori di Renzi si sarebbero rivelate inefficaci. Ma ciò, è ancora una volta “il senno di poi”.

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