Politiche ambientali, cosa cambierà dopo l’epidemia di coronavirus

Politiche ambientali. Sembra esserci un legame tra inquinamento atmosferico e diffusione del coronavirus. Lo si rileverebbe dall’effetto delle limitazioni alla circolazione di persone e mezzi. Sicuramente le restrizioni hanno determinato una diminuzione dell’inquinamento nei paesi che l’hanno adottate. Che l’inquinamento sia stato un veicolo di diffusione del virus lo indicherebbero i dati raccolti dalla SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale).

Da tale indagine, sarebbe emersa una simmetria tra la concentrazione di polveri sottili nell’aria e il numero di casi registrati di Covid-19. Il dato è coerente con quanto già emerso in precedenza per altre infezioni virali. In ogni caso, l’indagine della SIMA non è stata ancora accettata dalla comunità scientifica. Per ora rappresenta soltanto un plausibile punto di partenza per ulteriori approfondimenti.

A Parigi si è trovato un accordo per la riduzione del cambiamento climatico

Ciò non toglie che il problema del cambiamento climatico, dovuto all’attività dell’uomo, è attualmente oggetto del dibattito principale sulla sopravvivenza della specie umana sul nostro pianeta. Alla concentrazione di polveri sottili, si affiancano le emissioni di anidride carbonica e metano. Queste sono infatti responsabili dell’incremento delle temperature registrato tra il 1880 e il 2010 e dell’innalzamento del livello dei mari.

Gli accordi di Parigi del dicembre 2015, prevederebbero il progressivo abbandono del ricorso ai combustibili fossili e il parallelo ricorso alle fonti rinnovabili. Ciò non comporterebbe il ripristino delle condizioni preindustriali del pianeta. Secondo i paesi firmatari, tuttavia, si potrebbe evitare lo scenario catastrofico lavorando per uno “poco allettante”.

Le politiche ambientali hanno in Trump un fiero oppositore

Purtroppo, gli Accordi di Parigi sono stati attualmente ratificati soltanto dai paesi aderenti all’Unione Europea. Gli Stati Uniti, che con Obama ne erano stati i maggiori propulsori, hanno trovato nel nuovo Presidente Trump un fiero oppositore. Guarda caso, è proprio in USA che hanno sede la maggior parte delle multinazionali del petrolio. La metà dell’aumento delle temperature e un terzo dell’innalzamento dei mari è infatti causato dai 90 maggiori produttori mondiali di composti del carbonio ed esse ne fanno parte.

Non solo negli Stati Uniti le politiche ambientali hanno cambiato direzione. E’ notizia di poche settimane fa la “guerra” tra le Compagnie petrolifere di Stato dell’Arabia Saudita e della Russia per inondare i mercati del loro prodotto. Ciò ha fatto crollare il prezzo del petrolio dalla media di 70 dollari al barile dell’anno scorso a soltanto 25. Un prezzo così basso, alla lunga, avrà come conseguenza quello di far uscire dal mercato le aziende produttrici di energie rinnovabili non inquinanti. E’ ciò che vogliono le multinazionali del petrolio.

Le politiche ambientali delle compagnie petrolifere prevedono un incremento della produzione

Saudi Aramco ha in programma di produrre, da qui al 2030, greggio e petrolio equivalenti a 27 mld di tonnellate di anidride carbonica. Gazprom segue a ruota. L’anglo-olandese Shell, da un lato diffonde l’immagine di una compagnia impegnata ad investire sulle energie rinnovabili. Dall’altro, secondo i dati pubblicati dal Post, prevede un incremento del 38% della produzione di greggio e gas naturale entro il 2030. La statunitense Exxon-Mobil del 35%, la BP-British Petroleum del 20%, la francese Total del 20% e la Compagnia statale del Qatar addirittura del 58%.

Inoltre, secondo un report di Influence Map, molte compagnie finanziano campagne che screditano i dati sul cambiamento climatico. Exxon-Mobil, Shell, Chevron, Bp e Total vi avrebbero speso oltre un mld dollari in tre anni. Sono state le multinazionali Usa del petrolio a finanziare la campagna elettorale 2016 di Donald Trump, noto negazionista in materia. Lo stesso si apprestano a fare in vista della prossima scadenza elettorale presidenziale. Forse, la sopravvivenza della vita sul pianeta dipende da come voteranno gli elettori statunitensi, il prossimo novembre.

Fonte Foto: Startmag

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