Perché non ci si stupisce dell’intervento di Napolitano sulla condanna di Berlusconi? La certificazione del fallimento dell’attuale classe politica

napolitano-e-mister-bDelle molte cose dette e scritte in merito agli esiti della sentenza della Cassazione sul caso dei diritti televisivi Mediaset, sorprende la mancanza di adeguata attenzione per l’eccezionalità della circostanza relativa alla nota redatta sul tema da Giorgio Napolitano.

Per la prima volta nella storia della Repubblica, il Capo dello Stato in persona interviene per tracciare il percorso, definendone confini e limiti giudiziari e politici, che, nel rispetto della legalità, delle istituzioni e della leale e democratica competizione politica, in estrema sintesi nel rispetto del nostro paese e dei suoi cittadini, si dovrà intraprendere per ottemperare a un giudicato, evitare una pericolosa deflagrazione della politica, mantenere in vita un governo sempre più logorato da tensioni che oscillano tra perseguimento di obiettivi programmatici  e tentazioni mai sopite di ammiccare all’elettorato.

Nell’unico precedente noto – volendo per decoro evitare riferimenti alla latitanza di Bettino Craxi per la medesima vicenda giudiziaria – la condanna per la tangente Enimont di Arnaldo Forlani, già segretario della DC ed ex Presidente del Consiglio (le analogie con Silvio Berlusconi dovrebbero finire qui), l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, non fu tirato in ballo né senti alcun bisogno di esprimersi al riguardo.

L’idea che si trae dall’intervento di realpolitik di Napolitano è quella demoralizzante di un sistema politico non solo incapace di fare il bene del paese, ma addirittura incapace di badare a se stesso; pronto semmai a ricattare, così suonano le minacce di dimissioni in massa di parlamentari e ministri PDL, e, comunque, arroccato in difesa di un privilegio personale o di casta che necessita del costante presidio di un “amministratore di sostegno”. Con una certa crudezza, ma non senza realismo, Stefano Rodotà definisce “ovvietà” il contenuto del pronunciamento di Napolitano (solo per citare la più eclatante: “di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto”). Non vi sono né disprezzo né alterigia nel termine usato, ma solo un’oggettiva constatazione di fatti e circostanze ovvi.

C’è quindi da chiedersi cosa abbia spinto Giorgio Napolitano a “creare il precedente”.

A chi si rivolge il Capo dello Stato se non agli stessi attori della politica e del governo quando rammenta e rimarca le priorità contingenti? L’effetto è quello di un “memento”, che ripercorre la lista delle priorità della politica e del Governo Letta: il rilancio dell’economia e dell’occupazione, la modifica della legge elettorale, le riforme istituzionali.

Ce n’era veramente bisogno? Molto probabilmente no.

Certamente non ci si aspettava che un Presidente della Repubblica dovesse spendersi in prima persona per affermare che le sentenze definitive debbono essere applicate non perché sia lo stato che esige vendette ad personam, ma perché lo impone la legge che è uguale per tutti. Tuttavia, proprio questo principio di uguaglianza vacilla e si incrina quando si trova in prossimità di alcuni soggetti. Berlusconi non andrà in prigione, così come non ci andò Forlani salvato in extremis dalla  Legge Simeone – Saraceni, come pure non ci andò Craxi salvato dalla latitanza.

Mai come oggi si ha la percezione che la legge sia uguale solo per alcuni, ma non per tutti. Similmente il diritto alla difesa e i mezzi attraverso i quali essa si realizza sono, nei fatti se non nella forma, estremamente differenti per alcuni pochi, ma neppure così pochi, privilegiati. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che sia proprio un Presidente della Repubblica, altrimenti rigoroso ed estremamente responsabile, a ricordarcelo.

di Marco Bartolomei

foto: fenjus.wordpress.com

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