Pavese, gli adulti e l’effetto dell’infanzia perduta

«L’amico Alessio mi confessa che non ama i bambini.» Comincia così La libertà, uno dei racconti brevi di Cesare Pavese pubblicati nel 1960 con il titolo Racconti. La confessione di Alessio ha luogo sulla spiaggia, luogo narrativo frequentato dall’autore (si pensi al romanzo La spiaggia del 1942) che svolge lo stesso ruolo di sede d’istintiva vitalità infantile della campagna delle Langhe di Paesi tuoi (1941). Difatti la spiaggia è popolata di bambini; piccoli esseri umani che «soltanto a guardarli si capisce che vivono in un mondo che non è il nostro e vedono sentono ascoltano tutt’altro che noi», come dice Alessio.

L’infanzia perduta

Perfettamente in linea con le teorie sul determinismo psichico di Freud, Pavese ritiene che la personalità dell’uomo adulto dipenda quasi totalmente dalle dinamiche che lo attraversano nel periodo dell’infanzia. Mentre l’adulto è distratto dalla perenne ricerca dell’utile, il bambino vive senza mediazioni. Agisce e inconsapevolmente lascia che le esperienze gli entrino dentro e gli formino il carattere.  È per questo che in Il mestiere di vivere (1952) Pavese definisce l’infanzia e la giovinezza come un «vivaio perenne». Un vivaio fomentato dall’istintività, in cui anche la tendenza a imitare i comportamenti dell’adulto ha una rispondenza nei caratteri inscritti nell’inconscio. 

«Vedi, […] non è che in quest’età si abbia coscienza di se stessi, e si ragioni sui propri atti per chiarirsene il valore. È evidente. Non per niente i ragazzi vivono in un mondo diverso dal nostro. I ragazzi non pensano, agiscono. Per questo si chiamano istintivi. Ma è proprio questa scelta che avviene dentro di loro: per esempio davanti a un pericolo, uno piange, l’altro scappa, l’altro si butta a terra, l’altro fischia; e loro non lo sanno, ma, uomini, faranno lo stesso» spiega Alessio all’io narrante. Egli è perfettamente cosciente del rapporto tra infanzia e età adulta. Sa quanto siano legati e quanto allo stesso tempo siano distanti. Ma soprattutto sa che quella dell’infanzia è una condizione irrecuperabile.

L’esclusione

Memore ma irrimediabilmente escluso dal mondo dei piccoli, Alessio cerca di tenersene alla massima distanza. Non ama i bambini, non ha figli e non fa niente per averne. Oltre a considerarli il simbolo della sua infanzia perduta, teme il loro sguardo, poiché teme il giudizio sull’adulto che è diventato. E allora si chiude nella classica condizione pavesiana di «uomo solo» che anche se non vuole ammetterlo «si preme il cuore nel ricordo». 

«Mia moglie […] seppe da lei [la moglie di Alessio] una truce storia di stravizi cui l’amico si dava a ogni intoppo del loro amore» spiega il narratore, fornendoci l’esempio concreto della teoria di Alessio. La sua tendenza allo stravizio è uno sviluppo di quella infantile a trovare un piacere nel dolore («Certe volte ero contento se mi picchiavano, perché così mi sentivo disperato e potevo guardare fieramente il cielo, o richiudermi col gatto sul balcone e piangergli sulla schiena»). Anche l’abitudine alle reazioni brusche gli viene dall’aggressività di quando da piccolo Alessio obbediva al padre ma nel frattempo sentiva l’impulso di scannarlo. 

Il dilemma della libertà

Ma se l’io adulto è già inscritto nella trama dell’inconscio dell’io bambino, che posto ha il libero arbitrio nella nostra vita? Alessio non fornisce una risposta, anzi appena l’io narrante nomina la libertà egli si mostra evasivo, dice che della libertà se ne infischia. Ma non la nega, anzi infischiandosene ne riconosce l’esistenza e le conferisce un ruolo che nel racconto resta imprecisato. 

Se estendiamo la ricerca a altre opere scopriamo che per Pavese la libertà di scelta non solo esiste, ma è data a ogni uomo come possibilità di esprimere se stesso al massimo. Tuttavia per esercitare la propria libertà è necessario scoprirsi, conoscersi a fondo. E allora ecco che per determinare il proprio destino l’io deve analizzare la materia magmatica del ricordo dell’infanzia perduta, e ripercorrere la traiettoria della propria vicenda umana e culturale come l’autore stesso ha fatto nel suo ultimo romanzo La luna e i falò (1950). 

Foto di Daniela Dimitrova da Pixabay

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