Mi fai male, in silenzio

occhio-tristeÈ un dolore intenso, pulsante, costante. Prende lo stomaco e batte forte nella testa, è assordante. Il rumore del silenzio squarcia il petto e frantuma le reazioni, inchioda. Ci si ritrova a combattere con la voglia di ascoltare parole rivolte a te da cui emerge l’interesse di una relazione viva e coinvolgente e la paura della delusione perché il suono che senti è solo indifferenza.

Il non detto, l’urlato. E si cambiano espressione, gesti, vestiti, sogni, aspettative, percorsi. Ci si adatta per entrare nel suo esperire il mondo, sperando di esserci. Ci si aggrappa agli istanti in cui un barlume nei suoi occhi sembra rivolto a noi.  Si vomitano emozioni, sentimenti e solitudini.

La persona che si è scelta come conforto, guida, compagna a cui hai affidato gli anni migliori e a cui affidi il tuo futuro ti sente ma non ti ascolta. Non legge il tuo corpo. Ti guarda mentre il male che hai dentro ti toglie il respiro e le forze, aspetta che passi. E, lentamente, diventi colpevoli, zittisci la mente, ti annulli, giustifichi, muori. Ma l’altro non se ne accorge. Tu sei vento, aria che sposta per un attimo la routine, soffio che scompiglia, temporale passeggero.

Un’immagine fissa, una presenza, un insieme ordinato di ruoli, uno stereotipo. C’è da vivere, da lavorare, da pensare alla salute del corpo, da conservare, da badare al domani. E, nel frattempo, oggi non ci sei. E non ci sarai. Sei un corpo violato nell’apparenza di una carezza che dura il tempo di un amplesso, lo spazio dell’illusione che sia amore. A volte ti chiede come stai, ma sai che non vuol sapere quella risposta.

È una domanda che offende l’intelligenza e l’orgoglio perché la risposta è nelle parole non dette, nel linguaggio muto che scaturisce dalla violenza silenziosa, hai spento gli occhi. Non rispondi, ti volti e se lo fai, resetta subito dopo. Nonostante tutto, ancora tieni viva la speranza, ci sei e rimani immobile ad aspettare un cambiamento perché è una tua responsabilità costruire la vita insieme.

Sopporti, scegli in relazione al suo piacere, non contraddici, sostieni le sue idee e la sua fatica del quotidiano, cresci la sua prole, ti uniformi al suo essere, cerchi di mostrarti migliore e scompari. Se per uscire dal torpore, provi ad alzare lo sguardo e a lasciarti andare a un qualunque altro interesse che ti faccia ritornare il respiro, ecco che succede una cosa impensabile: si accorge che esisti. E sei di nuovo colpevole. Porti addosso la colpa dell’ingratitudine, del tradimento, dell’essere artefice della sua sofferenza.

Non parlargli, non rispondere, non capirebbe. La relazione che immagina perfetta è assolutamente malata, egoistica, devastante. Non cedere al suo dolore, incolperà te e presto ne sarà fuori.  Piano piano, se ancora ti ami, riesci ad andare via. Se ancora non l’hai fatto, vai.

Non temere la solitudine perché non c’è mai stato un noi.

di Deborah Capasso de Angelis

foto: letteratu.it

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