Matrimoni misti: l’alterità nella preghiera e nell’amore

Secondo i dati Istat le nozze di cittadini italiani con stranieri sono in notevole aumento su tutto il territorio nazionale. Tuttavia il 73% dei matrimoni misti tende a rompersi dopo tre anni, soprattutto nel caso di unioni tra donne cattoliche e uomini di fede islamica.

Volendo tracciare un quadro complessivo, fra le cittadine straniere sposate da uomini italiani, abbiamo una prevalenza di mogli rumene nel 20% dei casi, di ucraine nel 12% e di russe nel 6%. In pratica oltre una donna straniera su due è cittadina di un paese dell’Est Europa. Per quanto riguarda i matrimoni contratti da donne italiane con cittadini stranieri, generalmente, i partner scelti provengono dal Marocco (13%), dall’Albania (11%) e dalla Romania (6%). Quindi, il 24% dei mariti stranieri sono musulmani (marocchini o albanesi).

La Chiesa cattolica ritiene che anche nel caso di matrimoni tra persone di fedi diverse sia necessario applicare il criterio “Amoris Laetitia” (“La gioia dell’amore”), valutando caso per caso, in base a un processo di saggio discernimento, con sguardo benevolo e accogliente. Ciò non significa negare i problemi esistenti, che sono spesso gravi e complessi, e nemmeno esprimere giudizi o emanare sentenze prima di conoscere la situazione concreta che differisce da coppia a coppia. Nel Codice di Diritto Canonico l’espressione “matrimonia mixtae religionis”, si riferisce esclusivamente al matrimonio del cristiano con un non battezzato, anticamente con un pagano o giudeo e successivamente sarà usata per indicare anche il matrimonio con un battezzato deviato nell’eresia. Solo dopo i due grandi scismi d’Oriente (XI sec.) e d’Occidente (XVI sec.) il termine indicherà anche il matrimonio con un cristiano di altra confessione (ortodossa o protestante).

I matrimoni interreligiosi hanno caratteristiche diverse da quelli misti interconfessionali, poiché la coppia risulta particolarmente complessa dal punto di vista cristiano per il fatto che non esiste un legame battesimale tra i nubendi. Le varie confessioni cristiane assumono atteggiamenti molto divergenti nei confronti di tali unioni. Ad esempio, le Chiese ortodosse non ammettono assolutamente le nozze fra un ortodosso e un non battezzato, in quanto la mancanza del battesimo comune impedisce la creazione di quel forte legame tra gli sposi che è richiesto dalla sacramentalità del matrimonio. La posizione della Chiesa cattolica invece, pur opponendosi ai matrimoni interreligiosi, permette la celebrazione di queste unioni solo a determinate condizioni e ne consente lo scioglimento in “favore fidei”, dal momento che non sono considerate sacramenti. La Chiesa anglicana richiede il consenso del Vescovo, ma una volta ottenuta la dispensa per il matrimonio interreligioso, lo riconosce in qualsiasi forma venga officiato. Le Chiese protestanti non pongono nessun impedimento alla celebrazione e riconoscono valida ogni modalità che preveda il consenso degli sposi.

In alcuni Paesi musulmani è difficile per il coniuge di altra fede mantenere una certa libertà di pratica religiosa e anche l’opportunità di trasmettere ai figli il proprio credo. Occorre ricordare che, secondo il Corano, un uomo musulmano può sposare “una donna del Libro” (cristiana o ebrea), perché i diritti genitoriali sulla prole appartengono quasi esclusivamente all’uomo, che è il capo famiglia. La donna musulmana, invece, non può convolare a nozze con un miscredente, a meno che questo non sia disposto ad accettare la “shahada” (un vero e proprio atto di rinuncia alla fede di provenienza in favore di una conversione all’Islam). Il rapporto fra uomo e donna non è posto sullo stesso piano, in quanto il marito può ripudiare la moglie, ha il diritto di poligamia fino a quattro spose e ha il potere sulle scelte educative dei piccoli. In merito a tali divergenze di culto la Chiesa cattolica richiede che il coniuge cristiano non abbandoni la convinzione spirituale già maturata e faccia quanto in suo potere per diffonderla tra i propri cari e altrove.

Il matrimonio ebraico come “kidushin” è basato sul presupposto che la famiglia è una rappresentazione allegorica del tempio, in cui i bimbi possono essere cresciuti con valori strettamente ancorati all’ebraismo. Nel caso di un’unione mista viene messa a rischio la conservazione intatta dell’ebraicità della prole, per questo le unioni interreligiose non sono apertamente vietate dal diritto ebraico, ma può capitare che non abbiano validità, pur essendo celebrate da rabbini non ortodossi.

Un atteggiamento utile può essere quello di accompagnare le coppie che hanno contratto matrimoni misti, costituendo gruppi di incontro e centri di ascolto, capaci di rendere condivisibili e più semplici da affrontare i vari percorsi. Ciò consentirebbe a ogni individuo di non sentirsi abbandonato o, in qualche modo, escluso dalla comunità religiosa di appartenenza.

Infondo le diversità rappresentano la più affascinante forma di ricchezza e sono proprio le famiglie variopinte che animano la nostra società. Tante sono le persone, in Italia, che non credono nei matrimoni misti, ma altrettante sono le storie che smentiscono queste paure. Come quella di Sophie, bella tunisina di fede musulmana, e Francesco, romano di rito cattolico, che si sono conosciuti in un villaggio turistico. I due innamorati decidono di sposarsi secondo il rito civile previsto in Italia. Tuttavia apprendono dall’ufficiale del comune la necessità di ottenere prima il nulla osta del consolato tunisino. L’impresa sarà più difficile del previsto, poiché il documento in oggetto potrà essere rilasciato solo dopo aver esibito il certificato di credente musulmano del futuro marito, per come indicato da un funzionario del consolato di Tunisia. Francesco avrebbe, dunque, dovuto imparare a pregare in arabo, cinque volte al giorno, e conoscere le sure del Corano (i versetti del testo sacro) per sottoporsi poi all’esame del Muftì della Moschea di Roma.

Senonché il consolato tunisino annuncia che l’esame non si sarebbe più tenuto a Roma, ma nella Moschea di Cartagine, ricco sobborgo della capitale Tunisi, in Africa del Nord. Una scelta probabilmente legata ad alcuni dubbi sulla buona fede dello stesso Muftì di Roma oppure determinata dalla volontà di complicare la situazione di una giovane donna non allineata alla remissività femminile, ancora così diffusa nelle società islamiche. Francesco, bocciato per ben due volte dal gran Muftì, decide con Sophie di rivolgersi a un avvocato esperto in diritto matrimoniale, incaricato di perorare la loro causa difronte al giudice del tribunale civile di Roma, sezione provvedimenti speciali. Il legale dimostra che la norma dell’ordinamento tunisino contrasta con «i principi fondamentali dell’articolo 3 della Costituzione italiana, perché discriminatorio sotto il profilo delle credenze religiose». Egli chiede quindi di derogare all’articolo 116 del codice civile, che prevede il nulla osta per i cittadini stranieri, dal momento che il matrimonio di Sophie e Francesco va celebrato in Italia. Per processi di questo tipo occorrono in media tre milioni e un arco di tempo dai quattro ai sei mesi.

Nonostante l’entusiasmo di poter finalmente realizzare le tanto sospirate nozze, Sophie ha ancora un rimpianto: «Francesco ed io potremo sposarci solo perché abbiamo soldi da spendere con avvocati. Ma molte mie amiche, che magari vivono in Italia da poco, che lavorano come collaboratrici domestiche non potranno coronare il loro sogno se non fra molto, molto tempo. Conosco già numerosi casi del genere. Intanto continueranno a convivere e questo rappresenta un grosso problema per i figli che già hanno, ovviamente additati dai miei connazionali come frutti del peccato. Noi siamo stati davvero doppiamente fortunati perché, in tutta questa vicenda, continuiamo a tenerci per mano, ridendo delle nostre vicissitudini. Invece, in molti casi la coppia scoppia».

Un’altra storia molto appassionante è quella di Angelica, italiana cattolica, con Mohamed, marocchino musulmano, che si sono incontrati a ventiquattro anni nel 1992 durante un corso estivo di lingua tedesca in Germania. Lei sostiene di aver presto compreso che non si trattava di una cotta passeggera e afferma: «Non riuscivo più a mangiare, in un mese ho perso sei chili. Non dormivo più, non ce la facevo nemmeno a studiare. Avevo perso completamente la testa. E non c’era modo di tornare indietro».

Per un anno la coppia non ha avuto l’opportunità di incontrarsi, potevano solo scriversi lettere o parlare per pochi minuti telefonicamente. In quel periodo era impossibile per Mohamed venire in Italia a causa delle difficoltà legate all’ottenimento del visto. Allora è stata Angelica a decidere di partire e con lei tutta la sua famiglia. «Loro, che non erano mai usciti dal Paese, sono volati con me in Marocco. Mio padre, appena ha visto Mohamed, mi ha detto: “L’ho guardato negli occhi, e adesso so che di lui posso fidarmi”. Siamo stati ospitati in un appartamento dello zio, abbiamo conosciuto la sua bella famiglia e le tradizioni del popolo». A loro volta i parenti di Mohamed si sono aperti all’accoglienza e all’accettazione di questo amore: «Hanno capito che non ero una ragazza interessata solo a truccarsi e a fumare, che è quello che talvolta i marocchini pensano delle giovani europee. Anche per loro incontrarci è stato un modo di mettere da parte i pregiudizi».

Attraverso la scoperta della ricchezza che può donarci l’alterità è possibile superare, dunque, i preconcetti e le discriminazioni reciproche fra diverse culture, religioni ed etnie. Ognuno è rimasto convinto della propria fede e secondo Angelica «si può convivere bene anche se con tradizioni e fedi diverse, quando si condividono gli ideali di pace, giustizia e solidarietà. E se l’altro prega in modo diverso, che problema c’è?».

Anche la scelta matrimoniale con cui il musulmano Mahamud Mansur e l’ebrea convertita all’Islam Moral Malca hanno coronato il loro amore, dopo cinque anni di fidanzamento, può essere considerata una bella prova di dialogo fra la società civile israeliana e quella palestinese, che la coppia ha saputo offrire al mondo, andando oltre i veti, la rabbia, gli scontri e le vicendevoli ostilità dei due popoli. Del resto, proprio a Israele, il numero delle unioni civili miste cresce notevolmente nel tempo. Ogni anno più di mille coppie, che vivono in territorio israeliano, hanno la necessità di superare i pregiudizi, le complicazioni e i secolari attriti, soprattutto fra la comunità islamica e quella ebraica, per celebrare le rispettive nozze. La legislazione che vige attualmente presso lo Stato di Israele consente matrimoni solo all’interno di una delle dodici comunità religiose riconosciute (ebraica, musulmana, drusa e nove diverse confessioni cristiane).

Lo Stato ebraico, pur ammettendo oggi, in rari casi, le unioni civili fra persone senza religione, per gli altri questa importante possibilità non sussiste. Così gli innamorati cercano di aggirare l’ostacolo, sposandosi all’estero (Cipro è spesso la meta prediletta dai nubendi), con l’intento poi di far riconoscere la loro unione dalla legge israeliana. Tale processo è assai delicato e particolare, in quanto la Corte Suprema israeliana, secondo una legge risalente agli anni Sessanta, stabilisce la validità dei matrimoni civili all’estero, che devono però essere riconosciuti attraverso un iter che dura generalmente più di un anno.

La nascita dei figli porta con sé ulteriori difficoltà, come spiega la scrittrice italo-marocchina Anna Mahjar-Barducci, che è moglie di un cittadino israeliano: «Anche noi ci siamo uniti in matrimonio a Cipro. La situazione kafkiana è cominciata con la nascita della nostra bambina, Hili, venuta alla luce nel 2009. Non essendo io né israeliana e neppure di fede ebraica, lo Stato di Israele non ha voluto che mia figlia avesse il cognome paterno, nonostante mio marito avesse già riconosciuto la bimba e noi fossimo regolarmente sposati, e ci hanno obbligati a sottoporci a un test del DNA. Il primo certificato di nascita di Hili non riportava né il nome del padre né la nazionalità, ma soltanto il mio cognome. Per otto mesi, Hili è stata apolide e non abbiamo potuto lasciare il Paese».

Dunque, le modalità che regolano e permettono lo svolgimento di riti e cerimonie matrimoniali sono numerose e variegate, non solo per via delle differenze religiose, ma pure in base a norme e procedure legislative dei singoli governi. Ad esempio, l’India ammette solo due leggi che sanciscono la possibilità di considerare valido un connubio: l’Hindu Marriage Act e lo Special Marriage Act. L’Hindu Marriage Act stabilisce l’opportunità di registrare il matrimonio religioso solo per induisti, buddisti e sikh, ma non per cristiani
 né per appartenenti ad altre fedi, che possono comunque procedere 
a far schedare, da un punto di vista burocratico, i loro vincoli d’unione avvalendosi, invece, dello 
Special Marriage Act. Quest’ultimo prevede, inoltre, la possibilità di
 effettuare soltanto nozze civili, celebrate da un ufficiale
 di stato.

All’interno della coppia la diversità tra i credi rappresenta una difficoltà, ma anche un grande patrimonio da trasmettere ai figli, che a loro volta potranno scoprire nuovi sentieri nel vasto universo del sovrannaturale. In tal proposito è molto bella anche la testimonianza di una giovane indiana Sonam Shaikh, figlia di padre musulmano e di madre indù, che s’innamora del cristianesimo fino alla conversione, partecipando per la prima volta, su invito di un collega, alla messa della notte di Natale: «Non avrei mai immaginato che ascoltando il Vangelo durante la messa di mezzanotte, sarebbe iniziato il mio viaggio nella fede cattolica».

Tutte le particolari dinamiche connesse ai matrimoni misti e alle problematiche legate all’educazione della prole rendono senz’altro impegnativa la strada che condurrà a un pieno, legittimo e naturale riconoscimento di tutte le unioni interreligiose, soggette a un processo lungo e faticosa un po’ in ogni parte del mondo, sebbene nulla possa vietare all’amore umano di convivere nelle molteplici e incantevoli espressioni del bene divino.

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