Maria Grazia Grilli autrice ed interprete del monologo Sange

Una serata particolare, quella di venerdì 14 dicembre: all’auditorium dell’Ars Medica, l’attrice e drammaturga Maria Grazia Grilli, attualmente impegnata anche nel cinema, con un lungometraggio e due cortometraggi in fase di lavorazione, ha messo in scena una sua pièce, Sange, un monologo che racchiude anche un dialogo; un dialogo con un uomo, con più uomini, in realtà, con un padre, con una madre, con il pubblico, con se stessa.

Il buddismo insegna che nel “magazzino del karma” sono concentrati tutti i caratteri della vita, positivi e negativi: ciò che siamo stati, il perché, le influenze che abbiamo subito, ciò che siamo diventati. Alcuni di essi determinano il karma immutabile: una condanna alla mancata evoluzione. Solo una cosa è in grado di sradicare l’immutabilità: il pentimento, il Sange; non il rimorso, bensì l’assunzione di responsabilità, una richiesta di perdono al Gohonzon, l’essenza luminosa di noi stessi, per il male seminato. Per noi occidentali è forte l’assonanza tra sange e sangue; del resto, anche il pentimento, come il sangue, nasce da una ferita; come il sangue, il pentimento produce coagulazione, risanamento. Orbene, assistendo al Sange della Grilli, si capisce lentamente ed inesorabilmente quale sia il male da perdonare nella storia della protagonista. Quello di un’anima violata nell’innocenza.

La scenografia è minimalista: una tavola da stiro sulla sinistra, un pouf con un velo rosso sulla destra; a delineare il perimetro del teatro, palco e platea, tanti fogli su cui sono disegnati cuori. Ebbene, quel cerchio di cuori, che avvolge anche il pubblico, è preludio di quanto verrà inscenato. Bisogno d’amore, osmosi emotiva nell’abbraccio, empatia, partecipazione del pubblico ai cambiamenti del personaggio, che avvengono tra corpo ed anima, tra Io ed Es, per dirla con Freud.

La Grilli, sin dalle prime battute passa dal ballo al pianto, come un Pierrot in bilico perenne tra piacere e dolore.

La richiesta di perdono, “Sange-Sange-Sange”, rappresenta il leit-motiv di un dramma che è matrice di tanti altri drammi. Il dramma della formica schiacciata con crudeltà, “come fosse un serial killer”. Facile schiacciare una formica, un esserino minuscolo che chiede solo un granello di zucchero. Facile e crudele.

La quarta parete crolla quasi subito. La Grilli coinvolge il pubblico, si fa spettatore degli spettatori. Non si limita a far entrare la scena teatrale nella vita di chi guarda, ma capovolge la situazione e segna l’ingresso della vita in scena. Una vita non facile, come quella di tutti, una vita drammatica, come quella di pochi.

Una prova attoriale impegnativa. La Grilli passa con sorprendente rapidità dalla disperazione all’immobilità, dall’immobilità al fou rire; dal riso alla disperazione, dalla disperazione all’urlo, un urlo accompagnato dalla deformità del corpo, come se l’Es, il mostro da cui siamo vissuti, per dirla con Groddeck, fuoriuscisse dai corridoi oscuri delle proprie profondità.

Parla dell’uomo come contadino: semina e raccolto. Cita Gogol e Grotowski. Secondo quest’ultimo, il teatro non è imitazione della realtà e l’attore non recita, non copia l’essere umano che rappresenta, ma è se stesso, mette in scena il proprio corpo e la propria anima all’interno del personaggio. Credo sia proprio questo il lavoro che la Grilli ha inteso fare: entrare nel personaggio con tutta se stessa, passando da realtà a realtà rappresentata e portando con sé il pubblico.

In un simile frangente il teatro diventa un microcosmo emozionale, ma, come il viandante di una famosa operetta morale di Leopardi, la Grilli dissipa il velo d’illusione del pubblico poco prima che ne sia completamente avvolto. Il teatro è finzione, spiega; non bisogna credere che sia verità ciò che viene narrato. La vita, a volte, non è da meno. C’è un artista in ognuno, una persona in grado di mentire. A volte la menzogna trasforma gli uomini in mostri, però. Possiamo ancora dire d’essere a teatro? Anche nel velo rosso trovo una vicinanza al sangue e di sangue sono le parole della Grilli quando rievoca un’infanzia violata nel contesto usualmente più protettivo, quello familiare.

“Fingiamo che tu sia mia figlia”, è una frase che sentiamo all’inizio, ma che, alla fine, assume un significato ben diverso. Improvvisamente le due parti del corpo, la destra e la sinistra, normalmente simmetriche e coordinate, perdono la loro armonia: l’anima di una bambina parla per bocca della donna che è diventata. Perdona e accusa, parla e urla, chiede perché e non vuole sapere, ricorda e dimentica, ama e odia.

Due gli oggetti che introduce in scena, a quel punto: una pistola, oggetto idoneo ad uccidere, un pacco di patatine, oggetto idoneo a nutrire. Entrambi hanno connotazioni sessuali, nel gergo comune; ma, soprattutto, entrambi si fanno emblema, in quel contesto, di un rapporto genitoriale malato. Il genitore nutre e non dovrebbe uccidere. Ci sono tanti tipi di assassinio, però. Anche l’anima può essere uccisa dentro un corpo che continua a vivere. A volte, il genitore non si limita a nutrire; riesce anche ad uccidere l’anima. Questo dice la Grilli e lo fa, dedicandosi a nutrire gli altri, il pubblico: offre le patatine, corregge il karma.

Se fossimo negli Stati Uniti, definiremmo quest’opera un off-off Broadway: ci sono minimalismo e simbolismo; c’è un ritorno al passato attraverso la fuga da esso; c’è la famiglia come territorio di conflitto; c’è il dolore generato dal conflitto tra sogno e realtà, tra desiderio e disillusione; c’è il senso della violenza che racconta la violenza della vita. È un bel percorso tematico, affrontato con pathos ed ironia, disagio e semplicità; un percorso che cela voglia di stupire, ma, soprattutto, grande amore per la scena.

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