L’utile e il valore autentico nella storia del cieco di Monteaperto

«Bisogna proprio confessare […] che non vi è al mondo nessuno di inutile» dice l’avido Checco dopo la morte del fratello. Siamo nel racconto Il cieco di Monteaperto, incluso nella raccolta All’aperto. Bozzetti campestri (1892) di Cordelia alias Virginia Tedeschi Treves. Il tema centrale della storia è l’utile declinato nella realtà campestre cinica e materialista di fine Ottocento. La storia comincia con la morte del vecchio Tonio, padre di una famiglia numerosa e detentore di pochi averi per cui — dopo la dipartita — i figli si fanno la guerra.  Ma i conflitti si placano quando c’è da stabilire chi tiene con sé il fratello maggiore, diventato cieco a causa di una frana in miniera. Chi tiene lui si prende l’eredità, allora tutti fanno un passo indietro e pur di non accollarsi un peso simile rinunciano alla roba. 

L’utile e l’inutile

Alla fine il primogenito di Tonio resta con Checco e la moglie, che così oltre alla casa si prendono tutta l’eredità. Eppure la domanda resta: Che utilità può avere un cieco in una famiglia contadina che ha bisogno solo di braccia per lavorare e di lavoro per guadagnare il pane? Questo interrogativo alimenta il loro rancore, soprattutto quello della moglie di Checco che giudica il cognato ingombrante nonostante egli faccia di tutto per non essere d’intralcio. Finché il cieco resta in casa viene identificato solo come un «impiccio», un «mangiapani inutili», un essere «di peso alla famiglia» con una «faccia che mette malinconia». Nessuno lo chiama mai per nome, come se con la vista avesse anche perso la propria identità.

I familiari sono così impegnati a valutare gli svantaggi della sua inoperosità che non riescono a vedere i benefici di averlo in casa. Se ne rendono conto solo dopo la sua morte, quando arriva il momento di ricevere la solita elemosina dalla parrocchia: «ne fecero richiesta, ma il parroco rispose che l’elemosina la dava loro in causa del cieco, che essi potevano tutti lavorare e non ne avevano bisogno; anche le pietose visitatrici dei poveri dopo la morte del cieco passavano innanzi alla loro casa senza entrarvi; andavano dagli infermi e dagli invalidi dove il bisogno era più urgente, tanto che Checco e la sua famiglia qualche volta dovettero patire la fame». Allora rimpiangono davvero il cieco, ma perseverando nella loro ottusità e nel loro egoismo continuano a sminuire il suo valore autentico.

Il valore del cantastorie

Charles Dickens diceva che «nessuno è inutile in questo mondo se è capace di alleggerire i pesi di un altro uomo». Ed è proprio questa la vera virtù del cieco: alleggerire la vita degli altri raccontando storie. Una virtù che però può esercitare solo fuori di casa, nel dolce grembo della campagna, dove c’è qualcuno pronto a accogliere il suo dono. Si tratta del piccolo Gildo, un bambino fragile e delicato che vive in una villa vicina. «Gildo […] era d’animo assai buono, e malaticcio fin dalla nascita, sentiva molta compassione per le infermità altrui; poi aveva preso grande affezione a quel vecchio che gli raccontava sempre delle storie meravigliose di principi e di fate, e pensava a lui tutto il giorno».

Nel meraviglioso imprevisto dell’amicizia con il piccolo Gildo, il cieco si riappropria di se stesso e ritrova il suo posto nel mondo. Prima di morire ha la soddisfazione di essere riconosciuto per quello che è davvero: un vecchio cantastorie capace di aprire le porte di una dimensione fantastica, dove le brutture della realtà non trovano spazio e gli unici occhi da usare sono quelli dell’immaginazione. La sua nobiltà d’animo non può essere misurata con il denaro guadagnato, ma può consolare chi è debole e solo come Gildo. Dunque utilità e valore autentico non sempre coincidono, questo è l’insegnamento che Cordelia vuole trasmettere alle sue lettrici; «signorine avide di letture» che oggi «domandano nuovi libri adatti alla loro giovane età» e domani ne tramanderanno gli insegnamenti ai loro figli. 

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