Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet

1079516_d3773c9112504b39185519e2a91fad17Uscito in Francia nel 2013, arriva solo adesso anche in Italia l’ultimo film di Jean-Pierre Jeunet (Il favoloso mondo di Amèlie, Delicatessen, La città perduta, Alien – La clonazione).

Il protagonista è un bambino prodigio di 10 anni, T.S. Spivet, che vive in una sperduta fattoria del Montana, insieme alla madre entomologa, al padre cowboy e a una sorella maggiore che ambisce a diventare Miss America. Ancora scosso per l’improvvisa morte del fratello gemello Layton, durante un pericoloso gioco con un fucile finito in tragedia, il giovane passa le sue giornate a studiare cartografia e ad eseguire esperimenti scientifici e invenzioni brillanti.

Un giorno riceve una telefonata dall’Istituto Smithsonian di Washington D.C. che lo ha scelto – non sapendo che è solo un bambino – come vincitore di un prestigioso premio scientifico per la scoperta del moto perpetuo. Così, senza avvisare i familiari, una mattina il bambino parte in direzione est, verso Washington, trasportato da un treno merci all’altro e spinto solo dalla sua caparbietà nel voler arrivare a destinazione in tempo per il ricevimento.

Il regista di Amèlie accetta la sfida di trasportare sullo schermo una favola onirica romanzata di Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni, e lo fa utilizzando – novità per lui – la tecnologia del 3D, per una volta non inutile orpello al limite del fastidioso, ma parte integrante della scelta artistica dell’autore di ricreare un mondo-altro tangibile diverso dalla realtà. Jeunet mescola stili, sperimenta effetti visivi, dipana il genere “on the road” verso la commedia e l’avventura, concedendosi pure gocce di dramma qua e là.

L’attore bambino Kyle Catlett, alla sua prima apparizione cinematografica, è bravo a tenersi in equilibrio, ad essere credibile come genietto un po’ fuori dagli schemi senza mai apparire forzatamente esagerato. Film su un bambino, ma non esattamente solo film per bambini: a metà strada tra Mark Twain e Truffaut, è principalmente la storia di un percorso di crescita, una maturazione spirituale che trova nel viaggio solitario e segreto la metafora per esprimersi al meglio, sulla scia di pellicole dall’animo simile come Stand by me – ricordo di un’estate, Hugo Cabret e Vita di Pi (non a caso queste ultime due realizzate con lo stesso uso sensato e creativo del 3D).

È anche un film sulla contrapposizione innocenza – cinismo, bambini – adulti, dove questi ultimi vivono secondo rigidi schemi prefissati: la madre scienziata che pensa più agli insetti che ai suoi figli, il padre cowboy vecchio stampo, rozzo e granitico, che trascorre la sua vita tra gli animali e il suo salotto-stanza dei trofei, la sorella frivola che aspira alla notorietà e aspetta l’occasione giusta per scappare dal ranch – prigione, la segretaria dell’Istituto che spera di ottenere facili guadagni sfruttando la popolarità del piccolo genio.

Pur lontano dell’affascinante dark grottesco dei primi lavori (Delicatessen e La città perduta) – dovuta anche alla presenza della visionarietà malata del coautore Marc Caro – Jeunet mantiene la sua cifra stilistica fatta di colori sgargianti, fantasia inventiva e barocchismi: i grandi spazi americani si prestano ad essere filmati e goduti per il loro vigore selvaggio, ma nello stesso tempo vengono filtrati e reinterpretati dall’occhio creativo del bambino (chiaro alter ego del regista), dando allo spettatore uno straniante ed accattivante connubio di “natura antinaturalistica”.

Gli si può perdonare il finale forse troppo accomodante, un po’ American way of life, – che può risultare quasi ironico per un regista francese: rimane comunque un film tenero, carino, gentile, ma dal tasso glicemico controllato, inno alla creatività, alla fantasia, all’innocenza e alla determinazione fanciullesca.

di Fabio Rossi

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