L’ISIS e la psicologia del terrore

2La scioccante decapitazione del giornalista americano James Foley da parte dell’ISIS ha fatto inorridire molti in tutto il mondo, soprattutto in Europa e Nord America. Il fatto poi che il carnefice sia stato identificato come un cittadino britannico, ha ulteriormente aumentato l’allarme, non solo tra gli inglesi ma in tutti i paesi occidentali.

Il perché é abbastanza semplice. La presenza di cittadini europei nelle file dell’ISIS oltre a creare sconcerto, aumenta la preoccupazione e la paura, perchè se prima il nemico veniva giudicato lontano dalla sicura Europa, adesso la sua presenza nelle stesse città europee, aumenta l’insicurezza verso una minaccia portata dal vicino della “porta accanto”.

L’ISIS viene considerato un gruppo terrorista. In realtà cosi non è.

La sigla del Califfato l’ISIS raccoglie molteplici gruppi di miliziani, presumibilmente sunniti, a cui viene riconosciuto un unico ideologo Abu Bakr al-Baghdadi.

Mentre Al Qaida ha avuto come obiettivo principalmente gli Stati Uniti e gli stranieri, con l’utilizzo di metodi esclusivamente terroristici, cioè colpire improvvisamente cercando il più possibile di non far scoprire la propria identità e la propria organizzazione, l’ISIS vuole apparire come un esercito, che è parte di un movimento, che si prefigge la conquista di territori cosi da stabilire una egemonia politico- religiosa. Il Califfato appunto. Sarebbe stata questa strategia che ha portato alla scissione con Al Qaeda.

Al momento, non sembra che questi gruppi si basino su personaggi chiave. Anzi non si vedono possibili leader ma solo “comandanti di campo” non solo iracheni, ma provenienti anche da altri paesi, es Cecenia, Afghanistan, con la partecipazione anche di europei, con strategie e tattiche diverse, rappresentati anche da diverse simbologie, che potrebbero in alcuni casi rappresentare proprio la provenienza dei gruppi.

 Non un esercito di liberazione, quindi, né uno sparuto gruppo di terroristi, ma veri e propri gruppi di miliziani, provenienti da diversi paesi, che grazie anche al traffico illegale del petrolio, la conquista di arsenali militari sono stati al momento in grado di conquistare molte zone del Iraq arrivando fino ai confini della Siria.

 A questo va aggiunta una grande capacità utilizzo dell’immagine, dei mass media.

Rientra questo metodo nella guerra psicologica di cui, fin dall’inizio della guerra in Iraq ed in Afganistan il mondo Jihadista sembra essere ampiamente in grado di gestire.

Se infatti si analizzano immagini, i video che hanno contrassegnato la propaganda Jihadista, dall’ 11 settembre in poi, si può notare come questa fosse diretta esclusivamente verso il mondo islamico. I video spesso erano di contenuto inneggiante alla Jihad, con immagini di combattenti che colpivano obiettivi, militari o civili stranieri, immagini di guerrieri mascherati, simbologie di gruppi, tutto corredato da colonne sonore di tipo religioso.

Le immagini dell’esecuzione del giornalista James Foley ed il sottofondo in lingua inglese, con le minacce agli occidentali, dimostra un salto in avanti della strategia mediatica dei nuovi gruppi dell’ISIS.

Potremmo individuare tre elementi in questo nuovo approccio mediatico.

In primo luogo, l’utilizzo della guerra psicologica che è una parte fondamentale della strategia militare e l’ISIS in questo momento sembra averlo ben compreso.

Trasmettere queste immagini rientra nell’obiettivo di amplificare la presenza e la forza del gruppo. Ottenere quindi una immagine di potenza, minaccia e determinatezza, allo scopo di ottenere maggiore credito da una situazione rispetto a quello che in realtà il potere suggerisce. Ovvero apparire più forti di quanto militarmente siano nella realtà.

A detta degli esperti infatti, la loro forza militare non dovrebbe essere in grado di sostenere uno scontro aperto con eserciti regolari, ma l’utilizzo del terrore potrebbe servire a dissuadere le forze irachene male armate e soprattutto poco convinte di andare a combattere, anche per motivi religiosi, rischiando, se fatti prigionieri di essere selvaggiamente torturati ed uccisi. La paura è un’arma unica ed efficace, distrugge il morale degli eserciti avversari, e terrorizzando nello stesso tempo la popolazione.

In secondo luogo, ISIS capisce che i governi occidentali sono, in qualche misura, poco propensi non solo a ricominciare un conflitto in quelle aree, rischiando di veder morire i propri soldati, in terre al momento incontrollabili. Peggio ancora se le immagini di esecuzioni cruente di soldati europei fossero divulgate nel mondo.

Questo significherebbe non solo rovina politica, di molti Leader, ma anche una propaganda con una spinta inimmaginabile per la causa jihadista. Quello che poi è oggettivamente accaduto con l’invasione dell’Iraq da parte degli USA e dei suoi alleati.

E’ dimostrato quanto poco serva la strategia USA dei bombardamenti, anche mirati, se poi a questi non segue un intervento con la fanteria, e da qui le possibili gravi perdite, di cui nessun paese occidentale vuole farsi carico.

In terzo luogo, il terrorismo è una forma di propaganda del fatto. Più è mirato e violento l’atto, più incisiva è la propaganda.

L’immagine della decapitazione, l’attenzione per l’individuo che recita le ultime frasi, l’atto di profanazione del corpo il messaggio che sta dietro la scena, colpisce molto di più l’immaginario di quanto lo faccia l’esplosione di una bomba, anche se i morti sono di più.

Certo una violenza simile, potrebbe scatenare una risposta altrettanto violenta, ma è proprio in questo contesto che l’ISIS pensa di ottenere un ulteriore appoggio contro il nemico, un modo trasversale di reclutamento e di innalzamento dello scontro soprattutto se questo è basato su dettami religiosi.

Ma tutto questo alla fine funziona? Forse nel breve periodo si, ma è anche vero che alla lunga continuando questa scia di morti si finisce per rinsaldare il nemico.

Visto che non sembra esserci pietà, le forze dei nemici possono decidere di combattere più duramente aumentando il livello di scontro anche perché non si può fuggire sempre con il rischio comunque di essere uccisi. Con un supporto militare adeguato, le truppe regolari potrebbero avere la forza di contrattaccare iniziando uno scontro bellico durissimo che l’ISIS al momento non sembra in grado di sostenere.

Nelle campagne militari contano le retrovie ma anche il sostegno della popolazione. Tentare di imporre il proprio potere solo sulla forza, può garantire sicuramente successi nell’immediato ma alla fine rischia di ritorcersi contro. E’ vero che i sunniti in Iraq sono sotto il tallone degli Sciiti, e rivendicano una parità di diritti, ma non per questo sono disposti a farsi sottomettere da bande di miliziani, alla ricerca di un accreditamento politico religioso.

Come Osama Bin Laden ha scritto in una lettera di quattro anni fa, perseguendo jihad “senza esercitare cautela … ci porterebbe a vincere più combattimenti perdendo la guerra”.

Un ultima considerazione. Secondo alcuni studiosi del Corano, la reale conoscenza del Libro Sacro dell’Islam da parte di molti Jihadisti è molto bassa, nel senso che gli insegnamenti sono stati diretti esclusivamente su argomenti che possono essere utilizzabili per un reclutamento in funzione militare e terroristica.

Resta quindi il dilemma dei gruppi della jihad: può una strategia del terrore portare ad una vittoria o finisce per diventare una forma di violenza senza futuro?.

La storia ha insegnato che la seconda ipotesi è quella che si è avverata più facilmente.

di Gianfranco Marullo

foto:  doisongphapluat.com

 

 

3 Risposte

  1. kham san khoa

    Resta quindi il dilemma dei gruppi della jihad: può una strategia del terrore portare ad una vittoria o finisce per diventare una forma di violenza senza futuro?.

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