L’invasione pacifica di Michael Moore

downloadA sei anni da “Capitalism, a love story”, esce Where to invade next, il nuovo docu-film di Michael Moore, presentato in anteprima mondiale al Festival di Berlino 2016 e distribuito nei cinema italiani per soli tre giorni.

L’idea di fondo del regista è quella di andare in giro per l’Europa (e non solo) ad “invadere” pacificamente altri paesi e rubare loro qualcosa che non sia il petrolio: rubare un’idea, uno stile di vita, una legge, una conquista, una tradizione che possa essere copiata ed utilizzata per migliorare la società americana. Armato solo di bandiera stelle e strisce (“perché noi americani, per imparare qualcosa, dobbiamo conquistare”), parte per un lungo viaggio nel vecchio continente, effettuando interviste in Italia (dove apprende, meravigliato, dell’esistenza di ferie, festività, permessi e maternità retribuite), in Francia (sulla qualità delle mense scolastiche e sull’educazione sessuale insegnata nelle scuole), in Germania (sulla qualità della vita dei lavoratori), in Portogallo (sulla depenalizzazione del consumo di droga), in Finlandia (sull’efficienza della scuola pubblica), in Slovenia (sull’educazione gratuita per tutti, anche per gli stranieri), in Norvegia (sull’efficacia del sistema penale che punta sul recupero e non sulla punizione), in Islanda (sulla parità dei sessi in ogni aspetto di gestione della società). Fa perfino una tappa in Africa, in Tunisia, per constatare quanto la conquista dei diritti delle donne sia ormai giunta ad ottimi livelli.

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Lo stile è quello inconfondibile di Moore, prendere o lasciare: ironico, divertito, a volte patetico, paradossale, iperbolico, beffardo, pungente e satirico quando è il caso. La bravura indiscutibile è quella dell’efficacia del montaggio, dell’editing, del risultato finale, in cui interviste, immagini, musiche, spezzoni di vecchi filmati, disegni, si incastrano perfettamente in modo da rendere le due ore quasi sempre brillanti e per nulla noiose. Gli si perdona la retorica, il populismo e gli stereotipi che ogni tanto prendono vita quasi inconsapevoli (gli Italiani, felici edonisti e grandi amatori, in effetti fanno un po’ sorridere).

Moore ha avuto il pregio di nobilitare il genere del documentario reinventandolo come mezzo per raccontare storie, per esporre temi scottanti, per scuotere le coscienze degli americani, senza rinunciare al pop dell’intrattenimento godibile. Già all’esordio nell’89 con Roger & me, ma soprattutto con Bowling a Columbine e Fahrenheit 9/11, ha mostrato come le inchieste possano essere interessanti e cinematografiche, visivamente belle da raccontare, sia che si parli di armi, di terrorismo o di capitalismo.

In Where to invade next non esiste un vero e proprio “nemico” da combattere, se non la società americana stessa, incapace di ridistribuire equamente le ricchezze anche a causa di un’ eccessiva spesa bellica (quasi il 60% delle tasse degli americani finiscono per sovvenzionare la difesa). Parlare di walfare in America è quasi pericoloso, si rischia di essere considerati eversivi, radicali (non a caso Moore è stato criticato dagli stessi Liberal per aver sostenuto la campagna del socialista Sanders). La considerazione finale del regista è che gli Stati Uniti inizialmente avevano nel dna della loro Costituzione questi princìpi egualitari, ma con l’avanzare del capitalismo sfrenato e della corsa al profitto e agli armamenti, si sono perse tutte le “conquiste di civiltà”. Istruzione, lavoro, sanità, criminalità, salubrità del cibo, condivisione delle risorse: questi sono alcuni dei nervi scoperti che affliggono oggi la società statunitense. Può il Paese più potente al mondo tenere tutte queste contraddizioni internet?

di Fabio Rossi

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