L’illusione in un canto d’ubriachi

«Piccolo, quando un canto d’ubriachi/giungevami all’orecchio nella notte/d’impeto su dai libri mi levavo./Dimentico di lor la chiusa stanza/all’aria della notte spalancavo/e mi sporgevo fuor della finestra/a bere il canto come un vino forte». Questi versi sono tratti dalla poesia Piccolo, quando un canto d’ubriachi della raccolta Pianissimo (Edizioni La Voce, 1914). Qui Camillo Sbarbaro racconta di un imprevisto portato a galla involontariamente da un sussulto della memoria. Un canto d’ubriachi raggiunge l’orecchio del poeta fanciullo e lo distoglie dai suoi libri, facendogli assaporare per un attimo il senso di libertà che solo l’ubriaco-trasgressore può permettersi. 

Lo scudo delle lacrime

Nella visione disillusa del mondo che caratterizza lo sguardo del poeta adulto questo ricordo riaffiora come la memoria di un «inganno caduto». L’ebbrezza trasmessa dal canto è come l’effetto di un vino forte: strania i sensi e popola la realtà di illusioni. Al tempo dell’infanzia l’inganno era ancora possibile. Una volta scoperta la verità che sta alla base dell’esistenza la percezione di quella libertà sfiorata e desiderata non è più possibile. Nel presente resta «la bocca che canta spalancata verso il cielo», la finestra, l’io-poeta che si sporge per ascoltare meglio il canto d’ubriachi. Ma rispetto alla fanciullezza tutto sembra più amaro, la pioggia non si mescola più alle lacrime e la commozione resta confinata dietro uno «sguardo asciutto». 

Nel linguaggio poetico di Sbarbaro le lacrime rappresentano l’ultima possibilità del poeta-veggente di difendersi dalla triste constatazione del deserto che caratterizza l’esistenza umana. Anche da piccolo egli era in grado di scorgere nella «chiusa stanza» e nel buio della casa «dove già tutti i lumi erano spenti» l’oppressione di una vita sospinta dalla Necessità, perennemente in marcia verso la morte e in costante oscillazione tra noia e dolore. Ma all’epoca era ancora capace di lasciarsi travolgere dall’ebbrezza, di abbandonarsi alle lacrime deformanti che addolciscono la vista del deserto esistenziale. L’offuscamento della vista inganna ma permette una riconciliazione con l’esistenza. Nel linguaggio poetico sbarbariano infatti coloro che sono ciechi di fronte alla verità sono dei privilegiati perché si risparmiano un dolore e possono ancora illudersi che la felicità esista.

La vista implacabile

Se leggiamo per intero la raccolta Pianissimo ci accorgiamo che tutte e ventinove le poesie ruotano intorno a pochi temi ricorrenti, affidati a parole-simbolo che ritornano costantemente. Una di queste è occhi. La vista è l’unico mezzo che consente di raggiungere la verità annullando le illusioni che rendono la vita sopportabile. Nel caso di Sbarbaro non si parla di una vista fisica, bensì di veggenza: una condanna toccata a pochi sfortunati che permette di scrutare nell’invisibile.

Le illusioni si presentano sotto forma di consuetudini a coloro che sono svegli. La verità invece emerge nel buio del sonno, quando il poeta-veggente diventa sonnambulo. Il sonnambulo cammina con gli occhi chiusi agli inganni della veglia, ma li tiene ben aperti sulla rivelazione dell’estraneità radicale che isola ogni individuo e sul vuoto di senso di tutte le cose. Nel componimento d’apertura della raccolta il poeta scrive: «Camminiamo io e te come sonnambuli./E gli alberi son alberi, le case/sono case, le donne/che passano son donne, e tutto è quello/che è, soltanto quel che è./La vicenda di gioja e di dolore/ non ci tocca. Perduta ha la sua voce/la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto.

Canto, silenzio e controcanto

È difficile essere l’unico a rendersi conto che la fratellanza non esiste e che l’isolamento dell’io non ha soluzione. La poesia Mi desto dal leggero sonno solo dice: «Ed alcuno ho nelle cui mani/metter le mani con fiducia piena/e col quale di me dimenticarmi./[…] Or questo camminare fra gli estranei/questo vuoto d’intorno m’impaura/e la certezza che sarà per sempre». Eppure tutti questi estranei comunicano tra loro attraverso la voce, è forse anch’essa un’illusione? Sì, è illusoria come tutti i suoni che sollecitano l’orecchio. Per Sbarbaro l’udito è il senso più ingannabile che ci sia. Si fa soggiogare dal canto della «sirena del mondo», o – nel caso dell’io-fanciullo – da quello degli ubriachi. Per questo la verità si rivela al veggente quasi sempre di notte, quando tutti dormono e i rumori sono ridotti al minimo (pianissimo, appunto). 

A questo proposito la poesia I miei occhi implacabili che sono recita: «Col rumor della voce noi vogliamo/creare fra di noi quel che non è:/quando taciamo non sappiam che dirci/ed apre degli abissi quel silenzio./Allacciarci coi bracci non ci giova/se distinti restiamo ai nostri occhi». E se anche la poesia stessa è un canto, con Sbarbaro diventa un controcanto sommesso. Una voce che serpeggia tra i tanti rumori illusori che mascherano l’esistenza e sussurra la verità all’orecchio di chi vuole ascoltarla. Rivela che dietro la maschera non c’è nessun volto. Al massimo un po’ di vento che scompiglia i capelli e lascia l’io nella speranza di «quel sottile brivido pel corpo» che sottrae per un attimo dall’aridità esistenziale. In sospeso nell’attesa vana di una commozione destinata a non uscire più dalla sua bolla di fiato sospeso. 

Foto di ambroo da Pixabay 

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