L’arte della deduzione: Sherlock Holmes e la luce della scienza

«Ho visto la morte diverse volte e in molte circostanze, mai però così spaventevole come in quell’appartamento sudicio e buio affacciato su una delle vie principali della periferia londinese» scrive il Dottor John H. Watson sul suo diario. Siamo nel terzo capitolo di Lo studio in rosso, il primo romanzo di Arthur Conan Doyle che vede Sherlock Holmes protagonista.

Il dottore sta ricorda la prima scena del crimine visitata al fianco del suo celeberrimo coinquilino. Giunti al numero 3 di Lauriston Garden, Holmes e Watson si trovano davanti al corpo esanime di Enoch J. Drebber.  Il  volto scimmiesco del cadavere è sfigurato dall’orrore. La parola Rache (vendetta in tedesco) scritta con sul muro con il sangue è la macabra testimonianza di quanto sia forte e oscura la passione che anima l’assassino.

Il distacco dello scienziato

La vendetta infatti è una passione e le passioni hanno molto a che fare con l’irrazionalità, anche quando seguono un iter progettato nei minimi particolari. Si potrebbe scavare a lungo nella molteplicità delle ragioni che sottostanno a un proposito di vendetta, ma a Sherlock Holmes interessa indagarle solo nella misura in cui queste possono permettergli di raggiungere il suo scopo: trovare l’assassino. Ed è così che il caso intricato narrato in Lo studio in rosso, con tutto il groviglio di sentimenti e passioni che vi soggiace, si riduce a «una catena di eventi in logica sequenza, senza soluzione di continuità».

D’altronde la freddezza di Sherlock viene introdotta nel libro ancora prima che lui stesso compaia sulla scena. L’amico Stamford ne parla a Watson quando gli propone Holmes come coinquilino: «è un po’ troppo scientifico per i miei gusti… troppo gelido». Quello dell’investigatore è il distacco tipico dello scienziato. Ma ingigantito dalla solitudine e dalla perseveranza di chi intorno alla propria capacità d’osservazione e deduzione ha costruito tutta la sua identità. La prima volta che Watson lo incontra, Sherlock Holmes è nel laboratorio di chimica dell’ospedale e ha l’atteggiamento di un Archimede strampalato che grida Eureka! Ma ciò impressiona di più il dottore non è l’appena compiuta scoperta scientifica sull’emoglobina, bensì l’osservazione che Holmes gli rivolge mentre gli stringe la mano: «Come va? […] Vedo che è stato in Afganistan».

Il metodo deduttivo

Come fa quella specie di scienziato pazzo a sapere che il Dottor Watson è stato in Afganistan senza che nessuno gliel’abbia detto? La risposta si trova nel secondo capitolo di Lo studio in rosso, che per l’appunto si intitola La scienza della deduzione. Nel famoso appartamento di Baker Street, il Dottor Watson si trova per caso tra le mani un articolo intitolato Il libro della vita, e nota che è sottolineato a matita.

«L’autore asseriva di poter sondare i pensieri più riposti di un uomo grazie a un’espressione momentanea del viso, a una minima contrazione muscolare, a un’occhiata repentina. Secondo lui non era possibile ingannare chi fosse addestrato all’osservazione e all’analisi». Ignaro di chi sia l’autore, il dottore giudica l’articolo come «una teoria elaborata da qualche perditempo nel privato del suo studio», ma Holmes rivela di averlo scritto lui e aggiunge: «Le teorie che esprimo nell’articolo, e che a lei sembrano chimeriche, in realtà sono molto pratiche – talmente, anzi, che conto su di esse per guadagnarmi il pane».

Ed ecco che finalmente da non-ben-definito studente di medicina, Sherlock Holmes si rivela l’unico rappresentante al mondo di una professione che ha inventato lui: il consulente detective. È a questo punto che ogni tassello trova la propria collocazione e la figura di Holmes, da misteriosa e indecifrabile diventa netta in ogni suo contorno. Alla luce del suo lavoro e dell’enunciazione del metodo deduttivo, acquistano un senso anche gli studi condotti in totale autonomia nel laboratorio di chimica, il via vai di sconosciuti che episodicamente si presentano nell’appartamento condiviso da Holmes e Watson, la conoscenza approfondita di certe discipline a fronte della totale ignoranza in altre.

Conoscenze utili e inutili

Dalla lista delle conoscenze e lacune di Holmes che Watson riporta sul suo diario emerge infatti che l’investigatore sa tutto in materia di chimica e delitti del XIX secolo, ma assolutamente niente di letteratura, filosofia, astronomia e politica. Non ha mai nemmeno sentito parlare della Teoria Copernicana o del sistema solare. Ma anche il non sapere che la terra gira intorno al sole è in funzione della sua attività investigativa. 

Davanti allo sgomento di Watson, Sherlock enuncia un’affascinante teoria per cui «il cervello di un uomo si presenta inizialmente come una soffitta: occorre scegliere i mobili con cui riempirla. È sciocco colui che ci mette dentro qualsiasi oggetto. Così facendo, soffoca le cognizioni che servono a lui personalmente e nel migliore dei casi fa fatica a rintracciarle». E aggiunge: «arriva il momento in cui ogni nuova informazione introdotta nella mente comporta l’esclusione di qualche notizia che vi era stata introdotta precedentemente». «D’accordo, ma il sistema solare!» replica Watson. E la risposta è: «Che me ne faccio? […] Lei mi dice che giriamo intorno al sole. Ma se anche girassimo intorno alla luna che differenza ci sarebbe per me e per il mio lavoro?».

Uno strumento per decifrare la realtà

Di grigio, dunque, Holmes ha solo le cellule da attivare per risolvere i casi. Il resto o è bianco o è nero. Le conoscenze o sono utili o inutili, le cose o sono spiegabili razionalmente o non sono, il comportamento dell’investigatore stesso o è iperattivo o completamente passivo, le melodie che improvvisa con il violino o sono allegre o malinconiche. Con questa visione netta e semplificata della realtà Holmes riesce a risolvere brillantemente ogni rompicapo. Di fatto però impoverisce il fascino dell’imprevisto. Svilisce lo stupore che ogni delitto suscita negli altri e lo riconduce a una fredda concatenazione di cause e effetti da ricostruire con pazienza mediante osservazione e deduzione.

È lo stesso processo mentale che gli permette di ricostruire il passato recente di Watson solo osservandolo, di dedurre  che è stato in Afganistan solo notando la pelle scura, il viso emaciato e il braccio che si muove in modo innaturale. Si può dire dunque che per Holmes il metodo deduttivo non sia solo uno strumento per smascherare gli assassini. Ma la chiave per decifrare la realtà intera e definirne i meccanismi, che sono apparentemente complessi eppure estremamente elementari.

Foto di shell_ghostcage da Pixabay

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