La tela del ragno: 37 anni dopo il delitto Moro

unnamed (1)Il 9 maggio 1978 veniva ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro, all’interno del bagagliaio di Una Renault 4 rossa in via Caetani, nel centro di Roma. Il ritrovamento del corpo di Moro, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo dello stesso anno, segnava la fine di 55 lunghissimi giorni, segnati da troppe ombre e incongruenze. Trentasette anni dopo, “Il caso Moro” e i suoi misteri fanno ancora discutere.

L’Onorevole Aldo Moro venne rapito la mattina del 16 marzo 1978, a Roma: un commando delle Brigate Rosse, appostato all’incrocio tra via Fani e via Stresa, aprì il fuoco sull’auto del presidente e su quella della scorta: i cinque carabinieri destinati alla sua protezione massacrati, Moro prelevato.

Cominciò così la pagina forse più buia dell’intera era repubblicana, le cui ripercussioni si sarebbero avvertite anche a decenni di distanza. Nei 55 giorni successivi, i tentativi di ritrovare Aldo Moro risultarono vani. In un clima di crescente tensione, il comitato d’emergenza del ministero dell’Interno non riuscì a produrre nemmeno una pista seria. En passant, molti dei membri di quel comitato, tre anni dopo, sarebbero risultati tutti iscritti alla loggia P2 del Venerabile Gelli. A carabinieri e polizia vennero ordinati posti di blocco a tappeto, perquisizioni e retate: con l’unico risultato, quantomeno, d’intralciare gli affari della malavita locale. Di Moro, ovviamente nemmeno l’ombra.

Uno spettacolare quanto inutile dispiegamento di uomini e mezzi, che lasciava intendere come tra le alte sfere la confusione regnasse sovrana, per non dire di peggio. E a pagarne le conseguenze, ovviamente, fu il prestigioso ostaggio. Il caso Moro non è stato solo un affare italiano: in gioco si ritrovarono anche i governi – e i relativi servizi- di molti paesi del blocco occidentale e di quello orientale.

Preoccupati (o interessati) dall’esito incerto delle controverse politiche promosse dal presidente della DC, ora che risultava prigioniero nel “carcere del popolo”. Gli USA non vedevano di buon occhio la sua apertura a sinistra, per il timore di vedere il più grande partito comunista europeo partecipare alla gestione del potere di un paese strategicamente fondamentale come l’Italia. Dall’altro lato della cortina di Ferro, l’URSS era preoccupata dal fatto che il PCI potesse raggiungere posizioni di governo tramite libere elezioni, rinnegando così il dogma della “Rivoluzione permanente”.

Gli stessi alleati europei all’interno della NATO erano dubbiosi riguardo le “convergenze parallele”, di cui si faceva promotore il presidente della DC: che il PCI potesse avere accesso ai segreti NATO (tanto per fare un esempio: la rete clandestina “Stay behind”, o GLADIO, pensata e realizzata come risposta a un’ipotetica invasione sovietica del paese), non era minimamente pensabile. Se aggiungiamo che Israele covava risentimento nei confronti di Moro a causa della politica di apertura verso i paesi arabi, non si stenta a credere come il suo rapimento rappresentasse un vero e proprio intrigo internazionale.

Dei brigatisti che parteciparono al rapimento, si può dire tutto e il contrario di tutto; che fossero “Compagni che sbagliano”, “fascisti infiltrati”, “Utili idioti eterodiretti da una Longa manus esterna”, non ci è dato saperlo con certezza assoluta. Mario Moretti e i suoi compagni mantennero negli anni successivi la propria posizione, che venne accettata in maniera quasi totale dalle aule di tribunale: le BR avevano agite da sole, non c’erano state interferenze esterne di qualsiasi natura.

Tuttavia molteplici sono le questioni ancora aperte: davvero il know-how logistico-operativo indispensabile per portare a termine un’operazione complessissima -il rapimento e l’occultamento per quasi due mesi dell’uomo forse più importante del paese- era tutta farina del sacco brigatista? Davvero in quegli interminabili 55 giorni ne polizia, ne carabinieri, ne servizi ricevettero informazioni utili dai propri infiltrati nella galassia delle autonomie di sinistra, riguardo a un possibile covo? Davvero è solo un caso che molti dei componenti del “Comitato d’emergenza” del ministero dell’interno sarebbero poi risultati membri dell’anti-democratica e reazionaria loggia P2? E cosa successe all’imponente memoriale prodotto da Moro nel carcere brigatista, del quale solo una parte, “edulcorata” da qualche manina previdente, venne fatta pervenire alla magistratura?

Il decennio della “Strategia della tensione”, cominciato con la strage di Piazza Fontana, si sarebbe concluso nel tragico epilogo della vicenda Moro. La sola certezza che abbiamo è che molto sui quei giorni infernali debba ancora essere rivelato. Come sempre, solo la storia potrà giudicare.

di Matteo Rezza

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