La superbia di Agamennone, l’ira di Achille e la vendetta di Apollo

achille

«Almeno presso le navi senza lacrime, senza dolore fossi, dopo che hai sorte breve, non lunga!» esclama la dea Teti nel I Libro dell’Iliade (vv. 415-416). Parla del figlio Achille e della sua ira contro Agamennone, che gli ha portato via la schiava Briseide. Ma soprattutto parla della sua sorte, che il Fato ha già scritto.

Nell’Iliade il Fato (anche detto Moira) ha un ruolo fondamentale: è ineluttabile ed è l’unica divinità a cui nemmeno gli altri dei possono opporsi. Ma questo non significa che anche i conflitti tra le divinità dell’Olimpo e le decisioni degli uomini non siano fondamentali nel determinare la lunga catena di cause e effetti che costituisce la storia. 

Il poema di Omero si configura come un grande campo di battaglia dove la guerra si combatte su più piani. C’è la guerra tra Achei e Troiani; c’è la contesa tra gli dei che sostengono e aiutano gli Achei (Era, Atena, Teti, Efesto e Poseidone) e quelli che stanno dalla parte dei Troiani (Apollo, Afrodite, Ares); ci sono le discordie interne agli schieramenti, come quella tra Achille e Agamennone o tra Teti (che vuole vendicato l’orgoglio ferito del figlio) e Era (che non intende sacrificare la vittoria degli Achei sui Troiani per onorare Achille).

Le contrapposizioni hanno origini lontane, che travalicano il tempo della storia. Tutte però hanno a che fare con la superbia (iubris) e la vendetta (nemesis). 

La superbia di Agamennone

Uno dei volti dell’Iliade che incarnano meglio la superbia è sicuramente quello di Agamennone. Omero lo indica spesso come re, ma non usa il termine nel senso di monarca. All’epoca re significava primo fra gli uguali e era un titolo che designava uno dei capi militari che formavano l’assemblea. Veniva scelto in base a capacità personali e patrimonio. Aveva dei privilegi, in particolare nella ripartizione del bottino di guerra. Ma non poteva prendere da solo le decisioni: questo era un compito che spettava all’intera assemblea. Un’organizzazione semplice e democratica dunque quella dell’esercito greco, peccato che nei fatti Agamennone dimostri delle spinte egemoniche.

Si presenta come il più forte dei re e fa leva sulla remissività dell’assemblea per imporre il suo volere. La stessa guerra di Troia (o Ilio, da cui Iliade) si combatte soprattutto per un suo tornaconto personale. Paride (principe dei Troiani) ha strappato a Menelao (fratello di Agamennone) la moglie Elena e l’offesa non può restare impunita. «Davvero non pei troiani bellicosi io sono venuto a combattere qui, non contro di me son colpevoli […]. Ma te, o del tutto sfrontato seguimmo, perché tu gioissi, cercando soddisfazione per Menelao» afferma Achille, mentre discute con il re a proposito della restituzione di Criseide al padre.

L’ira di Achille

Nel Libro I Achille dimostra di ritenersi più forte di Agamennone e di non riconoscere la sua autorità di primo fra gli uguali. Anche in questo caso l’acredine nei confronti del re si è accumulata nel tempo, fomentata dalla competizione e da un profondo senso di ingiustizia. Ma è il caso di Criseide che fa esplodere l’ira di Achille, come anche la peste inviata dal dio Apollo. La vendetta del «figlio di Zeus e Latona» è uno degli esempi più eclatanti di nemesis divina che troviamo nell’Iliade. «[Apollo], irato col re, mala peste fe’ nascer nel campo, la gente moriva, perché Crise l’Atride maltrattò malamente».

La vendetta di Apollo e la partita degli dei

Omero ci racconta del sacerdote di Apollo Crise, che si presenta al cospetto degli Atridi (Agamennone e Menelao, figli di «Atreo domatore di cavalli») con le bende d’Apollo e lo scettro d’oro per riscattare la libertà della figlia Criseide. Ma Agamennone — a cui Criseide era andata in dono come schiava in quanto bottino di guerra — lo caccia in malo modo e rifiuta i suoi doni. Il dio Apollo, offeso dal rifiuto del re, invia una pestilenza terribile che devasta l’accampamento acheo. Per placare il dio — complice l’insistenza del Pelide — Agamennone accetta di restituire Criseide, ma in cambio prende Briseide, la schiava di Achille. È a questo punto che l’ira e l’umiliazione spingono il semidio a abbandonare il campo di battaglia, indebolendo enormemente l’esercito acheo. 

Ma non solo, l’umiliazione di Achille giunge alla madre Teti, che fa leva su un vecchio debito per convincere il re dell’Olimpo a perorare la causa del figlio. Ed ecco che Zeus — col disappunto di Era — manda il vecchio Nestore in sogno a Agamennone per dirgli che la guerra sarebbe finita presto in favore degli Achei. Invece la guerra si dimostra lunga, sfiancante. Costellata di soprusi e vendette, di dei egoisti che giocano la loro partita sul campo di battaglia degli uomini e non si dimostrano meno vili e meschini di loro. Ma anche di guerrieri che a son di battaglie e vendette cercano la gloria, ma che spesso — come Achille — finiscono per trovare solo la solitudine in fondo alla strada che il Fato ha disegnato per loro.

Foto di Devanath da Pixabay

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