La storia editoriale dei “Canti Orfici” e i suoi imprevisti

canti orfici

«Un mattino d’inverno del 1913, io e Papini andavamo alla tipografia Vallecchi in via Nazionale, dove si stampava Lacerba […]. Prima ancora che fossimo entrati  […] [l’editore] ci venne incontro sin sulla porta e ci indicò un individuo seduto sur un canapè nero di tela cerata nel corridoio, il quale […] era poc’anzi venuto e desiderava parlarci. […] Gli domandammo chi fosse e che cosa volesse da noi. Con voce esile e lamentevole […] ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci sarebbe piaciuto pubblicarli nella nostra rivista».

In questo frammento di Ricordi di vita artistica e letteraria Ardengo Soffici racconta il suo primo incontro con il controverso Dino Campana. I lacerbiani non sanno ancora niente sul suo conto ma il suo viso roseo e i vestiti da contadino suscitano in Soffici e Papini una simpatia che sa di ironia. Accettano di leggere le sue poesie e Campana consegna a Papini «un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite». 

Il manoscritto smarrito

Il taccuino contiene l’unico esemplare della stesura primitiva dei Canti Orfici, che in questa fase si intitola Il più lungo giorno. Dopo averlo letto Papini glielo restituisce e dopo lo richiede indietro perché intenzionato alla pubblicazione. Ma ecco l’imprevisto: Papini passa il manoscritto a Soffici e Soffici lo smarrisce durante un trasloco. Una negligenza imperdonabile nei confronti di quel povero «poeta pazzo» che non aveva altre copie del suo lavoro. 

Quando Campana apprende la notizia dello smarrimento il contraccolpo psicologico è devastante. Considera Il più lungo giorno come la sola giustificazione della sua esistenza, perdere quei componimenti significa privare la propria vita del suo senso. Così il poeta entra in crisi, pensa perfino di uccidere Soffici. Tuttavia per quanto sconvolto, trova la forza di ricominciare tutto da capo. Faticosamente ricompone l’opera a memoria e ricomincia a pensare alla pubblicazione.

Stampa come prova d’esistenza

La voglia di pubblicare è quasi un’ossessione per Dino Campana, un desiderio profondo che insieme a una lucida coscienza di sé esprime perfettamente in una lettera inviata a Prezzolini nel 1914: «Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone. Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere stampato; per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so fare ha una purità di accento che oggi è poco comune da noi».

Ma siccome nessuno vuole stampare la sua opera, alla fine Campana pubblica a proprie spese. La prima edizione (stavolta intitolata Canti Orfici) esce il giugno del 1914, a Marradi, presso il tipografo Bruno Ravagli. Il contratto prevede la realizzazione di 1000 copie entro il mese di luglio, ma verosimilmente tale numero non verrà mai raggiunto. Nemmeno le indicazioni di Campana sull’aspetto della copertina vengono seguite. Come se non bastasse, lo stampatore si rivela estremamente impreciso e il risultato è un’edizione dimessa e piuttosto pasticciata. L’ennesima disavventura di un’opera grande quanto bistrattata. 

L’edizione non autorizzata

Più fortunata sarebbe l’edizione Vallecchi del 1928, se non fosse per un piccolo dettaglio: la struttura dell’opera viene rimaneggiata e pubblicata senza il permesso dell’autore. Quando il curatore Bino Binazzi ne invia una copia a Campana — all’epoca chiuso in manicomio — questi amareggiato afferma: «la Vallecchi varia qua e là non so perché: poco importa giacché è un compenso dovuto a la modernità de l’edizione senza dubbio. Rimasugli di versi, strofe canticchiate se ne potrebbe riempire un quadernetto. Ma che farne. Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili: variante vallecchiana. Passo lunghe ore pensando a la vanità del tutto». 

Una strada lunga e accidentata dunque quella per arrivare alla versione definitiva dei Canti Orfici, ma la radice è sana e persistente. Nonostante i fallimenti, gli incidenti e le varie difficoltà infatti l’opera è arrivata fino a noi; e la voce di Campana, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi sogni e le sue allucinazioni, resta ancora scolpita nella storia della nostra grande letteratura. 

Foto di Greg Montani da Pixabay

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