La politica estera di Barack Obama? It’s the economy, stupid!

obamaSenza titoloLa campagna elettorale di Bill Clinton contro George Bush senior, si basò principalmente sullo slogan: «The economy, stupid!», rinfacciando al rivale (e al predecessore Reagan) una politica estera finalizzata al mero controllo politico e territoriale, concretizzatosi con la caduta dei regimi comunisti dei Paesi dell’Est europeo e il primo intervento militare in Iraq. Clinton propugnava una maggior attenzione alle problematiche economiche interne piuttosto che alla politica estera, ed ebbe successo.

Dopo il doppio mandato presidenziale di George Bush jr., caratterizzato nuovamente dagli interventi militari in Afghanistan e ancora in Iraq, Barack Obama ha ripreso le linee politiche del suo predecessore democratico, nominando Segretario di Stato e responsabile della politica estera Hillary Clinton, moglie di Bill. In politica interna, la maggior attenzione all’economia, rispetto ai presidenti repubblicani, si è caratterizzata con l’azione rivolta all’estensione delle garanzie sociali ai ceti meno abbienti e alla politica di salvataggio delle banche d’affari durante la crisi del 2008; due interventi assolutamente inediti nel panorama liberistico della politica economica statunitense. Ma, in politica estera, l’azione dell’amministrazione Obama ha avuto per effetto un vero e proprio rovesciamento delle linee di tendenza di Washington: disimpegno militare in Iraq e in Afghanistan; non intervento nella crisi libica e, sostanzialmente, nemmeno in quella siriana; infine l’accordo con l’Iran, il cui obiettivo – nemmeno tanto nascosto – è stato quello di riportare sul mercato internazionale il petrolio iraniano, con conseguente ulteriore abbassamento del suo prezzo al barile.

Con la firma del Trattato Trans-Pacifico(TPP), sulla liberalizzazione del commercio con undici Paesi dell’area, il presidente americano corona tale la strategia diplomatica, puntando sul controllo globale dei mercati attraverso il commercio e la finanza. Anche se taluni ambienti Usa temono che le pur apprezzabili disposizioni contenute nella TPP non siano un argine sufficientemente alto alla disoccupazione interna ( il ricordo dei milioni di posti di lavoro persi per via della delocalizzazione delle imprese americane istallatesi in Messico o la devastazione dei saldi commerciali determinati dall’ingresso della Cina nel Wto brucia ancora), gran parte della stampa americana sottolinea che la TPP è il più vasto accordo regionale mai raggiunto, riguardando economie che valgono 28 mila miliardi di dollari di PIL annuo, cioè il 40% di quello mondiale, ed un terzo del commercio internazionale. Inoltre, è un precedente importante rispetto alla negoziazione in corso di un accordo sostanzialmente analogo tra gli Usa e l’Unione Europea, il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

La TPP, infatti, crea un quadro completamente nuovo nei rapporti tra gli stati firmatari; in particolare, per quanto riguarda gli strumenti che le imprese potranno usare per tutelare i propri interessi, le prospettive di sviluppo economico per le imprese americane all’estero e l’occupazione negli USA, espropriando il Wto delle competenze sulla composizione delle controversie commerciali ed attuando, di fatto, un accerchiamento geopolitico della Cina che non ha preso parte alle trattative.

Se si addiverrà alla stipula anche dell’accordo esclusivo con l’Unione Europea (TTIP), Obama aggiungerà ai suoi risultati economico-politici strategici, oltre all’accerchiamento della Cina, anche quello della Russia.

Il problema è sempre quello che ad ogni azione corrisponde una reazione. Perché l’Europa ha un anello debole, sul piano della politica monetaria e cioè il Regno Unito, che non fa parte dell’area Euro e la Cina non ci sta tanto facilmente ad essere circondata. Guarda caso, il 20 ottobre scorso, il presidente cinese Xi Jinping è stato ricevuto in pompa magna a Londra, dove è stato allestito un banchetto in suo onore nella residenza reale di Buckingam Palace e poi si è rivolto alle Camere del Parlamento, riunite nella Royal Gallery di Westminster.

Il rapporto tra Regno Unito e Cina si può collocare, quindi, in un contesto in cui entrambe le potenze potrebbero ridefinire lo schema attuale delle loro relazioni internazionali. La prima è costretta a individuare un nuovo destino al di là dell’Europa, per la sterlina e per la City, in quanto la sua appartenenza all’UE è un dato politicamente marginale dal punto di vista economico e finanziario. La seconda deve risolvere il problema della convertibilità dello yuan sul mercato dei capitali, per trovare un approdo stabile al suo surplus estero ed ai capitali fin qui accumulati; ha quindi interesse ad investire al di fuori dei confini, così come il Regno Unito ha bisogno di attrarre capitali. Gli accordi conclusi o che prossimamente si concluderanno, tra i due governi, dimostrano che la guerra finanziaria, condotta da Wall Street sin dal 2008, con l’appoggio politico del Presidente Obama, non si è ancora conclusa in suo favore. Di certo, non si concluderà in favore dell’area Euro.

di Federico Bardanzellu

Nella foto Ichiro Suzuki e Barack Obama: Wikimedia Commons

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