La morte di Davide Bifolco, vittima di una realtà sociale senza più regole

davide-bifolco-620x350Alcuni anni fa un giornalista, Carlo Siani, in seguito ucciso dalla camorra, portò alla luce il fenomeno dei “muschilli”. Erano i primi baby spacciatori, ragazzini che girando per Napoli trasportavano la droga, facevano “i servizi” per gli adulti,  controllavano le zone pronti a dare un allarme all’arrivo delle forze di polizia.

La loro giovane età, spesso sotto i quattordici anni, spesso con parenti compiacenti, li rendeva non perseguibili dall’autorità giudiziaria e quindi potevano essere facilmente impiegati dalla criminalità per attività illecite.

Gli anni sono passati, e il fenomeno si è ormai strutturato, organizzato, suddiviso per zone e per attività. A Scampia “enclave” napoletana dello spaccio di droga, è ormai prassi vedere ragazzini e minorenni muoversi, controllare, fare da pali perché tutto il sistema dello spaccio funzioni a dovere.

Davide Bifolco (foto), che muore, perché insieme ad altri due ragazzi su un motorino, perché  non si fermano all’alt dei Carabinieri, potrebbe esser tranquillamente inserito in questo contesto.

Non vogliamo entrare nel merito della vicenda, non ci interessa. Vogliamo capire.

Le facili disquisizioni sulle cause e sui perché di un tale fatto, non mancano. Ricostruzioni sociologiche, il ruolo della camorra in quelle zone, assenza delle istituzioni, la crisi economica ecc.  un “mantra” classico, un “coccodrillo” (articolo già pronto in caso di eventi luttuosi) come si diceva una volta in termine giornalistico, da sfornare immediatamente.

Tutto giusto, tutto già detto. Ma la vera domanda è un’altra: perché un ragazzino, che non aveva alcun precedente, che viveva una vita normale, si accompagna ad altri, con precedenti penali, e finisce vittima di cosi un tragico evento?

A metà degli anni sessanta il Prof. Franco Ferracuti  uno dei più grandi criminologi italiani  di fama mondiale, pubblicò un libro, una pietra miliare degli studi criminologici, intitolato “ A Subculture of  Violence” , la sottocultura della violenza.

Nel suo studio il Prof. Ferracuti, prendendo spunto da studi sulle realtà giovanili devianti, concluse che certi comportamenti devianti, non fossero esclusivamente ascrivibili  solo a  specifici elementi  comportamentali di ciascun soggetto, o all’influenza negativa dell’ambiente, ma che questi fattori  interagiscono a vari livelli, con elementi comuni, ma nello stesso tempo differenti, così da costruire e riprodurre un sistema sottoculturale, in cui le giovani generazioni finiscono per  identificarsi.

Questi elementi, presenti anche in soggetti non devianti, spingono ad una sorta di “achievement”, al conseguimento, all’ identificazione, in  una realtà,  in modelli  e stili di vita, di cui a vari livelli si fa parte, di cui si fanno propri  valori e comportamenti.

Questi ultimi, non devono per forza essere “criminali”, ma la contiguità con essi, finisce per creare una accettazione di valori, differenti, che porta ad  una percezione negativa di qualsiasi legge e forma di controllo, e soprattutto ad un rifiuto di ogni forma di Autorità.

La morte di Davide Bifolco sembra rientrare in questo contesto. Il tragico evento è conseguenza di un presupposto di base: il non rispetto delle leggi, il rifiutarle deliberatamente, in maniera anche plateale, che finisce per essere considerato un comportamento “normale”.

Se un adulto è in grado di valutare, in maniera più attenta, il rischio e le conseguenze derivanti da un mancato rispetto delle leggi, il minore non ha stessa la percezione di quello che può accadere. Semplicemente vede nell’illegalità, una sorta di autovalutazione distorta della propria forza e delle proprie capacità.

Una illegalità, che non significa di per sé, mettere in atto comportamenti criminali, ma si concretizza anche in un atteggiamento di  una sfida all’Autorità, qualsiasi essa sia, negandone il ruolo, proprio perché rappresentante di leggi, che non  si riconoscono, che si rifiutano, giudicate estranee alla propria  realtà ed ai propri valori di vita.

Un atteggiamento questo, condiviso con altri, spesso coetanei, che assume le caratteristiche identificative di un modello comportamentale che trova la sua ragion d’essere, e le sue conferme  nel gruppo stesso e nell’ambiente circostante.

Ma attenzione non è detto, come qualcuno afferma un pò troppo semplicemente, che questo rifiuto delle leggi, e dell’Autorità, sposti direttamente il soggetto ad accettare le leggi della criminalità.

Le leggi che regolano il mondo criminale sono molto più dure, ed al contrario di quelle dello Stato, se le si infrange, i rischi sono ben superiori (pestaggi, violenze fino alla morte).

Si resta quindi in una zona “al limite”, in cui si vive a contatto con realtà illegali e criminali, ma nello stesso tempo ci si considera estranei.  Si idealizzano certi comportamenti, ma non si entra a farne parte. Potremmo definirla una partecipazione all’illegalità vissuta in maniera “periferica”.

Il caso di Daniele  Bifolco ne è l’esempio lampante.

Il fuggire a un posto di blocco, perché si è in tre sul motorino, senza patente e assicurazione è un comportamento illegale che, se mi va bene, mi garantirà, al ritorno nel gruppo, l’approvazione ed di rispetto da parte dei miei coetanei.

Se invece questo non mi riesce, verrò sanzionato in via di una legge, che non riconosco, mi farà sentire un perseguitato, non libero di fare quello che voglio, aumentando un perverso concetto di sfida e di negatività verso l’Autorità  vista sempre di più come estranea se non nemica.

Non bisogna avere precedenti per finire in situazioni illegali. Questo è un elemento importante da capire. Il ruolo del gruppo, e le sue leggi, in cui il proprio agire ne rende parte,  finisce per esser un punto di riferimento, anche solo per brevi e drammatici momenti.

E’ lo steso atto illegale che viene considerato normale, e la frequentazione dell’amico con precedenti, che però è  in grado di farla franca, che diventa un mito, accettato dal gruppo di cui si fa parte, che rinforza questi comportamenti e rende in qualche modo tutti partecipi, tutti sodali, tutti pronti, in un momento di follia a “rischiare” qualcosa in più, con conseguenze disastrose.

I casi di Daniele  Bifolco, di Ciro Esposito, alla fine non sono diversi dalle morti per incidenti stradali dovuti al non rispetto del codice della strada. Sono decine i ragazzi che muoiono sulle strade per non aver rispettato i limiti di velocità, per aver guidato in stato di ebbrezza, o sotto effetti di stupefacenti.

Anche qui spesso il non rispetto delle regole di qualcuno, finisce per avere conseguenze drammatiche per tutti gli altri, che forse queste regole le avrebbero rispettate.

Ma ormai è troppo tardi.

di Gianfranco Marullo  

foto: blogo.it

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