La migrazione non è un problema europeo

migrantiIl dibattito sulle quote di ripartizione dei migranti all’interno delle regioni e dei paesi europei alla luce dei dati dell’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. 
Nell’acceso dibattito riguardante i migranti, spesso si sottolinea la differenza tra aventi diritto o meno, tra chi emigra perché perseguitato e chi lo fa per via della miseria e della fame. La linea di demarcazione tra le due categorie non è netta e la disperazione di coloro che fuggono dalla guerra è del tutto simile a quella di quelli che fuggono dalla fame. I pericoli che affrontano durante il viaggio e i rischi che corrono per arrivare in Europa sono esattamente gli stessi.

Nelle ultime settimane il dibattito, già molto vivace, si è infuocato per via della questione delle quote  di ripartizione: chi deve farsi carico dei nuovi arrivi? Questa domanda è rimbalzata da comune a comune, da regione a regione, da nazione a nazione. In assenza di soluzioni e di piani di accoglienza, gli ultimi arrivati, perlopiù africani soccorsi in mare dai mezzi di Frontex, si sono accampati nelle stazioni ferroviarie, incluse quelle di frontiera dove sono giunti nella speranza di raggiungere la Francia, la Germania o il Nord Europa e dove sono stati fatti oggetto di controlli e respingimenti. 

In Europa la gestione della migrazione sta mettendo in luce, nella società civile come nella politica, aspetti e comportamenti allarmanti, spesso influenzati da pregiudizi e strumentalizzazioni. Scandalosa è l’affermazione di voler innalzare un muro lungo la frontiera con la Serbia, affermazione pronunciata da Viktor Orban, capo di governo di un paese, l’Ungheria, la cui storia recente è stata profondamente segnata dalla famigerata “cortina di ferro”. Altrettanto vergognosa è la dichiarazione del premier inglese Cameron di non voler accogliere neanche un migrante ma di essere unicamente disposto a fornire mezzi navali e aerei per contribuire alle operazioni Frontex. 

Anche la Francia paladina di fraternité respingendo a Ventimiglia 170 migranti africani non ha fatto una bella figura, soprattutto considerando che tra questi c’erano minori non accompagnati ai quali andava garantita una tutela particolare. Per motivi di sicurezza legati al G7 la Germania ha revocato il trattato di Schengen chiudendo le proprie frontiere per circa tre settimane. Al Brennero si sono visti gruppi si somali e di eritrei accampati in attesa di poter passare. Chi è riuscito ad attraversare il confine è stato rispedito indietro. Quanto all’Italia, la penalizzazione geografica viene compensata all’italiana aggirando gli accordi di Dublino (firmati dagli stessi italiani) e non identificando i migranti, nella speranza che se ne vadano altrove in Europa.

Complessivamente la gestione europea del fenomeno migrazione appare oggi più che mai scoordinata, improvvisata, farraginosa. Dietro gli ignobili battibecchi sulle quote di ripartizione (ma anche sulla distinzione tra profughi veri e migranti economici) si nasconde una questione ben più di fondo, quella se accogliere o respingere i migranti. Ovvero la scelta tra solidarietà e rifiuto. 

Finora l’Europa ha dato una risposta emotiva, con belle dichiarazioni all’indomani dei naufragi, alle quali però non sono seguiti gli impegni che la gravità del fenomeno avrebbe richiesto. Soprattutto non è seguita una visione comune, condivisa e coordinata all’interno della UE. Al contrario: nel complesso la risposta è stata contraddittoria, insufficiente ed anche un po’ ipocrita: l’accoglienza va data sì, ma soltanto a coloro che scappano dalle guerre. Solo che poi si vogliono distruggere i barconi che consentono ai profughi, anche a quelli che scappano dalle guerre, di compiere, sempre che ci riescano, l’ultimo tratto del loro lungo viaggio verso la salvezza.

Arrivati in Europa, i profughi scampati alle persecuzioni nelle loro terre di origine devono sottostare a nuove persecuzioni, quelle rappresentate dalle procedure burocratico-amministrative che possono durare anche anni durante i quali vivono in un limbo di precarietà e incertezza, condizionati da leggi nazionali e accordi internazionali discutibili, tipo Dublino o Schengen, due trattati che si stanno dimostrando drammaticamente inefficaci. Due trattati oggetto essi stessi di polemiche e litigi tra i capi di stato europei divisi tra chi ne invoca la rigida applicazione e chi ne vuole l’abolizione. Ne deriva un immobilismo deleterio che impedisce di mettere in piedi un sistema di accordi, di risorse, di procedure in grado di prendere di petto la vera questione di fondo, quella della governabilità del fenomeno migratorio. Ciò sarebbe non solo necessario ma anche conveniente, secondo autorevoli economisti e demografi, visto che la popolazione europea sta vistosamente diminuendo.

Per governare la migrazione bisogna conoscerla e per conoscerla è necessario partire dai numeri che la caratterizzano. Il 18 giugno scorso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha pubblicato il suo ultimo rapporto, relativo al 2014, e ha segnalato una forte impennata, a livello mondiale, del numero di persone costrette a lasciare le loro case, con oltre 8 milioni di profughi in più rispetto al 2013. L’incremento è il più alto mai registrato in un solo anno. Complessivamente a fine 2014 nel mondo c’erano quasi 60 milioni di profughi. Di essi solo una percentuale molto bassa ha affrontato i pericoli, i rischi e le difficoltà del viaggio per arrivare in Europa. 

Tra i primi dieci paesi che hanno dato ospitalità ai rifugiati non ce n’è nessuno europeo. La maggior parte dei profughi ha trovato ospitalità in paesi limitrofi a quelli da cui sono fuggiti. Esempi emblematici sono quelli della Turchia che è diventato il paese che ospita il maggior numero di profughi in assoluto (ca. 1,7 milioni), seguito dal Pakistan (ca. 1,5 milioni), dal Libano (ca. 1,2 milioni), dall’Iran (ca. 1 milione), dall’Etiopia (ca. 0,7 milioni), dal Kenia (ca. 0,6 milioni). A questi numeri si aggiungono quelli dei cosiddetti sfollati interni, persone che hanno abbandonato le proprie case ma che ancora vivono all’interno dei loro paesi. Sono oltre 38 milioni. Quando i capi di stato europei bisticciano a causa delle quote di ripartizione dovrebbero considerare le cifre suddette e fare i dovuti rapporti.

Grafico a barre
I dati dell’ONU mostrano come finora l’emergenza migrazione, che molti in Europa drammatizzano definendola epocale e di dimensioni bibliche, abbia interessato relativamente poco il vecchio continente. Il problema se mai è quello di capire cosa succederà in futuro. Le statistiche, i dati e le considerazioni sopra riportate indicano che probabilmente il fenomeno migratorio che stiamo osservando è soltanto agli inizi. Esso continuerà nel tempo in modo non prevedibile con accelerazioni e rallentamenti determinati dal sussistere o dal venir meno delle sue cause: conflitti armati, guerre civili, terrorismo, povertà, carestie, disastri naturali. 

E’ difficile immaginare gli scenari che si presenteranno nel giro di sei mesi, un anno o dieci anni a partire da oggi. Tuttavia alcune ipotesi sono possibili fin da ora. La prima riguarda i muri già esistenti e quelli che verranno edificati all’interno o lungo i confini esterni dell’Europa. Non serviranno a fermare le migrazioni. La seconda riguarda eventuali azioni militari nel Mediterraneo, se mai verranno autorizzate con una risoluzione ONU. Non porteranno alcun beneficio, semmai saranno controproducenti. Distruggere con le armi i barconi degli scafisti non bloccherà i flussi di migranti dai paesi dell’Africa subsahariana verso la Libia, piuttosto ne peggiorerà le chance di sopravvivenza. Poco cambierà se la mattanza non avverrà più nelle acque del Mediterraneo. La terza ipotesi riguarda i rigurgiti di tipo nazionalistico-populistico in atto in svariati paesi europei. Quello della Danimarca è solo l’ultimo esempio. Se avranno successo trasformeranno l’Europa in senso involutivo.

Nonostante finora l’emergenza migratoria lo abbia toccato relativamente poco, essa potrebbe tramutarsi in uno tsunami per il vecchio continente. Che corre il duplice rischio della disgregazione come società e come istituzione politica. Questa disgregazione potrebbe far precipitare l’Europa indietro di mezzo secolo. Se la politica non è in grado di cogliere la gravità di questo rischio, dovrebbero farlo i cittadini e la società civile. Ma questo implica un grado di unità, di sensibilità e di condivisione di valori di cui gli europei di oggi non sembrano disporre.
di Pasquale Episcopo
foto: agi.it

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