“La mia vita in pugno”, il libro che celebra il fotogiornalista Vito Liverani

In occasione del suo novantesimo compleanno lo celebra un volume, “La mia vita in pugno”, una biografia corredata da immagini di sport realizzata da due giornalisti amici  

Un compleanno, i suoi novant’anni, festeggiati il 5 febbraio in una cornice speciale, il milanese Circolo Hug, in presenza di tre generazioni di fotografi che hanno lavorato con lui o per lui e di giornalisti altrettanto datati che non hanno voluto mancare la presentazione del libro dal titolo “Vito Liverani – La mia vita in pugno”, di Bolis Editore. Una biografia curata da un vecchio amico, Sergio Meda, e dal figlio Federico, giornalista lui pure, presentato con affetto e simpatia da Gianni Mura. 

Liverani incarna la storia del fotogiornalismo sportivo italiano a partire dagli anni Cinquanta. Classe 1929, originario di Modigliana di Forlì, terzo di otto figli, a otto anni è con la famiglia a Milano, dove il padre ha aperto un ristorante. In quegli anni si presta alle consegne per i negozianti della zona, raccoglie un po’ di mance, dà i soldi in casa, si sente utile. A dodici anni smette di studiare, s’improvvisa garzone dello Studio Baratelli in via Passerella, un negozio del centro dove si fanno solo ritratti e fototessere. Scatta in lui da quel momento la febbre per la fotografia, il grande amore della sua vita.

Da Baratelli rimane circa due anni perché il lavoro, molto ridotto durante la guerra, fa dire al titolare “trovati un altro posto”. Nel 1943 si impiega presso stabilimento fototecnico Dotti & Bernini e completa la sua formazione professionale. Scalpita e va via, ma ci tornerà anni dopo, gli farà comodo avere uno stipendio aldilà del lavoro di fotografo che ha iniziato in proprio, con l’aiuto di Walter, suo fratello più grande. Il bacino di utenza è il quadrilatero di via Moretto, a Milano, dove sostano non meno di ottocento famiglie, di cui fotograferà le gite, i compleanni, i matrimoni, le fototessera di cui han tutti bisogno. Gioca su prezzi supercompetitivi perché il segreto sta nelle copie che gli richiedono in più occasioni. L’archivio è la sua prima grande intuizione, sarà la sua fortuna.

A diciotto anni scopre la boxe: disputerà da dilettante trentasei incontri, dapprima peso piuma poi peso leggero. Unendo le due passioni, pugilato e fotografia, s’inventa anche un nuovo lavoro: in palestra ritrae i pugili che la frequentano e anche chi pugile non sarà mai ma che vorrebbe atteggiarsi a boxeur. Anche qui le copie valgono il disturbo, sono un business. 

Il passo successivo sono le prime esperienze a bordo ring, quando fotografa le riunioni di boxe al Teatro Principe di Milano o al Palalido. Le competenze maturate sul ring lo aiutano a cogliere l’attimo in cui scattare, il colpo d’occhio è fenomenale. È un ottimo autodidatta, ha carattere da vendere e voglia di arrivare, non per i soldi ma per quello che i soldi consentono.

Nello sport troverà modo di esprimere il suo talento, dapprima con il pugilato, poi con il ciclismo il calcio e tutte le altre discipline. 

Stargli dietro è difficile, lo sanno per primi i dipendenti e i collaboratori, per la carica vitale che pare inesauribile. Comincia a fare soldi veri, ne farà (e ne spenderà) un sacco, con una piccola vanteria, riassumibile in una frase che è una rivendicazione: “Nessuno potrà mai lamentare di avanzare una lira che è una da me”.

Nel 1954 cambia nome all’agenzia, da Foto Liverani a Olympia Fotocronache, che diventerà una delle più importanti agenzie fotografiche d’Italia, di certo la prima in ambito sportivo. Sono anni di grande lavoro e di successi, che proiettano Liverani nel gotha del fotogiornalismo italiano, con Vincenzo Carrese, Tullio Farabola e Giancolombo. Alla fine del 1980 cede l’Olympia a chi gliela strapaga, senza segnalare che il motore dell’agenzia, lui, non è in vendita. Ci riprova, perché l’inattività – vivere di rendita oziando – non fa per lui e gli acquirenti dell’Olympia si sono dimenticati di fargli firmare il patto di non concorrenza.

Nel 1981, otto mesi più tardi, dà vita a Omega Fotocronache, e la storia ricomincia, sino al 2011 quando, ottantaduenne, gli dicono che è ora di smettere. Ma quel suggerimento, motivato dal cardiologo che da sempre lo ha in cura, segnerà il suo sentirsi inutile. Disagio comprensibile visto che per settant’anni ha lavorato non meno di 17 ore al giorno.

di Gianni Poli

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