La lotta di classe di Yvan Sagnet

La prima filiera etica italiana contro il caporalato

Erano i mondiali di calcio, era la coppa del mondo Italia ’90; nella partita d’esordio il Camerun sorprende con una storica vittoria contro l’Argentina di Diego Maradona.

Dall’equatore un bimbo camerunense supporta fedelmente la squadra della propria nazionale, tuttavia estasiato segue le prodezze di un Totò Schillaci e l’eleganza di un Roberto Baggio. Incomincia così il sogno italiano di Yvan Sagnet: 5 anni e rabberciate parole in lingua italiana intonate sulle noti di “Notti magiche”. « Mi convinsi che la mia vita avrebbe dovuto essere altrove, non il mito americano, non la Francia, il cui retaggio coloniale tuttora insiste sul mio paese, bensì l’Italia ». 

La storia che andremo a raccontarvi nasce in Africa ma approda con il suo miglior intento e contributo in Italia.

Da studente regolare a bracciante senza diritti

Yvan Sagnet nasce a Douala (Camerun) nel 1985 e arriva a Torino nel 2007 come studente universitario del corso di laurea in ingegneria grazie ad una borsa di studio. Terminata la borsa, Yvan inizia a cercare un’occupazione per poter continuare gli studi e nell’estate del 2011 decide di seguire un amico in Puglia per la raccolta dei pomodori.

<< Scopro così il lato oscuro della bella Italia, a Nardò conosco lo sfruttamento all’interno dei ghetti, dove centinaia e centinaia di braccianti stagionali vivono in cerca di un lavoro. Quello che poi è diventata una baraccopoli era inizialmente un centro di accoglienza costruito intorno alla masseria e messa a disposizione dall’amministrazione comunale. Prima 100 migranti, poi 500, poi 1000, infine 1.200; per sopperire alla mancanza di posti letti, i braccianti  avevano iniziato a costruire baracche, utilizzando tutto ciò che potevano trovare lungo la strada. >>

Una vita a cottimo

<< Ho incontrato il mio caporale due giorni dopo il mio arrivo. In quella zona i caporali erano tutti migranti africani, loro gestiscono l’attività lavorativa, loro hanno il compito di mettere a disposizione dei proprietari la manodopera necessaria nelle campagne. Questi ci prelevavano dal ghetto e ci “scaricavano” nei campi presso i quali rimanevamo per una media di 12-14 ore al giorno. All’interno dei ghetti si sviluppa una sorta di “altra economia”, un sistema parallelo a quello convenzionale, gestito dalla malavita. Ovviamente anche il trasporto era a pagamento, così come il resto dei servizi: € 3,50 per un panino a pranzo, € 1,50 per una bottiglia d’acqua. Ricordo che il primo giorno non portai a casa nulla, nonostante 16 ore di lavoro. Non ero molto bravo a riempire i cassoni, ed è qui il guaio >>, confessa Yvan sorridendo, << la tua paga è proporzionale al numero di cassoni che riesci a riempire in una giornata … Io non ho mai superato i 4 cassoni. >>

Il primo sciopero di braccianti stranieri in Italia

Yvan non ci sta a diventare la persona passiva di cui questo sistema disumano ha bisogno per poter andare avanti.

<< Ho resistito per 5 giorni, poi mi sono rifiutato. O meglio, ribellato >>. Yvan diventa così portavoce dei braccianti e leader di quello che è stato riconosciuto come il primo sciopero di braccianti stranieri in Italia. Era il 28 luglio 2011, e dei braccianti africani si ribellavano ad una nuova forma di schiavitù in Italia. Lo scioperò duro 45 giorni, coinvolse circa il 90% dei lavoratori e non solo.

<< Scioperare significa sacrificio, soprattutto quando si inizia a sentire la fame. Ma ecco la parte più umana e preziosa di questa esperienza:  alla nostra richiesta di aiuto, i cittadini di Nardò hanno risposto offrendoci del cibo ogni giorno; i sindacati ci hanno sostenuto, i media hanno parlato di noi. E alla fine ci siamo riusciti, siamo riusciti a far emergere la realtà e a far si che il caporalato diventasse oggetto di dibattito pubblico. Il caporalato è un fenomeno che esiste da decenni in Italia, dai tempi di Di Vittorio, ma l’Italia l’aveva dimenticato e le campagne nascondono bene, essendo zone più marginali. Da qui hanno preso avvio importanti inchieste, nonché l’iter che ha poi portato all’approvazione della prima legge sul caporalato (Legge n. 148/2011) e alla nuova legge del 2016, sicuramente più adeguata rispetto alla prima. >>

“Io ho un idolo in questo paese, si chiamava Giuseppe Di Vittorio”

Dopo aver lavorato diversi anni come sindacalista per la FLAI-CGIL, Yvan capisce che la lotta contro il caporalato deve muoversi lungo binari più preventivi che non repressivi. << Fino ad allora avevamo agito prevalentemente sugli effetti, piuttosto che sulle vere cause del fenomeno. L’azienda agricola è infatti l’ultimo anello di una lunga catena che risponde ad un meccanismo iper-liberista. Chi decide il prezzo del prodotto? Quanto incide la manodopera sul prezzo finale? (non è il lavoro la componente più costosa, bensì il fattore energetico, che incide per circa il 40%). Era necessario partire dalla grande distribuzione organizzata, è qui che la quasi totalità del potere si concentra oggi. Ed era necessario un nuovo metodo di certificazione. >>

Per tutte queste ragioni nasce l’associazione anti-caporalato NoCap: per passare dalla protesta alla proposta, per costruire un’alternativa capace di andare ad intaccare un modello economico che non può più funzionare, per combattere ogni forma di sfruttamento umano ed ambientale.

Trasparente, etico, vero

Il centro di azione di questa lotta rimane la responsabilità, la consapevolezza del consumatore. Solo ripulendo il nostro modo di consumare, possiamo essere in grado di colpire questo sistema. Il bollino NoCap nasce proprio per “smascherare” il sistema ed i suoi prodotti.

Il modello su cui si basa il bollino etico NoCap fa dell’etica il principio portante ma guarda in maniera sistemica alle pratiche impiegate dall’impresa. << La matrice multi-criteri che utilizziamo valuta diversi aspetti aziendali, assegnando un punteggio da 1 a 5: incentiviamo la filiera corta (l’Italia esporta l’80 % del pomodoro italiano e ne importa il 60% poiché meno costoso, tuttavia anche quest’ultimo viene venduto sotto il marchio italiano); insegniamo alle imprese come smaltire i propri rifiuti riutilizzandone fino all’80%, ed assegniamo un punto per ogni 20% di risparmio o riuso; guardiamo al benessere animale che l’azienda è in grado di garantire. Si tratta di un controllo costante e presente, eseguito personalmente, sul posto, e non delegato. >>

NoCap, il bollino etico per una nuova certificazione italiana contro il caporalato

<< Siamo partiti dal mercato e dal dialogo. Abbiamo portato tutte le parti interessate allo stesso tavolo: la commercializzazione, la produzione, i lavoratori. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare quello che io chiamo “gruppo illuminato”: Megamark, leader nella distribuzione organizzata nel sud Italia, si è impegnato ad acquistare prodotti agricoli etici garantiti dal bollino NoCap. Questa collaborazione parte proprio dall’intento di voler portare in primo piano il prezzo del produttore (non del distributore). >>

Il progetto pilota investe tre aree di Italia:  il Foggiano, in Puglia (area simbolo), il Ragusano, in Sicilia ed il Metapontino, in Basilicata; 30 aziende agricole, 120 braccianti assunti direttamente dalle imprese stesse che hanno la possibilità di piazzare a prezzi giusti il proprio prodotto sul mercato.

Ricostruire una filiera

<< Per fornire un prodotto etico, che davvero rispetti i diritti dei lavoratori e dell’impresa, abbiamo dovuto ricostruire un’intera filiera; in questa fase, trattandosi soprattutto del primo esperimento, il prezzo finale del prodotto contiente circa il 15/20% di costi in più rispetto a quello di partenza.

La nostra associazione ha messo a disposizione un autobus di 50 posti per cui ogni giorno i lavoratori vengono condotti in sicurezza e dignitosamente sul luogo di lavoro. La filiera etica ha offerto ai braccianti e alle imprese un’alternativa valida, sostenibile, legale, abolendo il cottimo ed il lavoro grigio (che costa alle casse dello stato italiano circa 50 miliardi ogni anno), applicando contratti collettivi nazionali di lavoro e dando ai lavoratori la possibilità di fare richiesta di disoccupazione; abbiamo sottoposto tutti i lavoratori a visita medica (cosa che il 70% delle imprese agricole italiane non fa), abbiamo dato loro il vestiario tecnico (cosa che il 95% delle imprese italiane non garantisce); tutti i campi di raccolta sono provvisti di bagni chimici. Per ora siamo ancora in una fase sperimentale, non è questo il modello di accoglienza che più ci piace, ma da qui siamo dovuti partire: l’obiettivo è condurre braccianti ed imprese verso la piena autonomia. >>

Non solo stranieri

Ricordiamolo una volta ancora: caporalato e sfruttamento non sono prerogativa di migranti stranieri, ma forse sono proprio questi ultimi ad aver riacceso i riflettori su un fenomeno ormai vecchio.

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