La lingua di Dante, di cui si innamorò Federico

Dante

I 700 anni dalla morte di Dante non potevano non porre l’attenzione su un tema da sempre oggetto di dibattito, ma mai affrontato esaustivamente e con serietà, quello dello stato di salute della lingua italiana. Accadde anche 10 anni fa, nel 2011, quando alla lingua italiana fu meritoriamente riservato un posto d’onore nelle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. L’italiano, si disse, ha svolto un ruolo determinante per giungere all’unità politica e alla creazione dell’identità nazionale. Ciò poté succedere perché la lingua italiana era parlata ben prima del 1861. Come affermato dallo scomparso linguista Tullio De Mauro, con Dante il 90% del vocabolario fondamentale era già costituito. Non a torto, dunque, quando parliamo della lingua italiana ci compiacciamo di chiamarla “la lingua di Dante” decantandone, con ciò, maturità, solidità, incisività. Ma è proprio vero? 

Qualche dubbio lo alimenta lo stesso Alighieri il quale ben conosceva l’esistenza di una schiera di poeti che già un secolo prima di lui si erano cimentati con i rudimenti della primissima lingua italiana. Grazie alla cosiddetta Scuola Poetica Siciliana – la denominazione si deve proprio a Dante – la lingua italiana fece capolino già mezzo secolo prima della nascita del Sommo Poeta. Non solo in Sicilia. Numerosi furono i poeti, provenienti da tutte le parti del Regno di Sicilia (e successivamente altri provenienti dal resto della penisola) che contribuirono al suo fiorire. Regno, quello di Sicilia, che non coincideva con l’isola più grande del Mediterraneo. Nell’Italia del XIII secolo esso copriva il territorio a sud del “Patrimonium Sancti Petri” (che successivamente sarebbe diventato lo Stato della Chiesa). Il Regno di Sicilia si distingueva politicamente dal resto d’Italia per la vastità del suo territorio. Federico II ne divenne sovrano già nel 1198, all’età di quattro anni, dopo la morte del padre Enrico VI e per volontà della madre Costanza d’Altavilla, Nel 1220 venne incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero che si estendeva su gran parte dell’Europa centrale. Su questi vastissimi territori governò fino al giorno della sua morte, il 13 dicembre 1250.
Carl Arnold Willemsen, storico tedesco che ha dedicato la sua vita allo studio e alla ricerca sullo Svevo afferma che “l’inimitabile personalità dell’imperatore fece in modo che la sua corte divenisse un luogo di risonanza sovraregionale, che rese possibile alla scuola poetica di adempiere al compito significativo di precorritrice e antesignana della letteratura italiana”. Ma dove ebbe dimora la corte? Non certo in Sicilia troppo distante dal resto dei territori sottoposti a Federico II. Subito dopo l’incoronazione a Sacro Romano Imperatore, Federico prese decisioni che aveva maturato probabilmente già negli otto anni precedenti, trascorsi in Germania: avrebbe stabilito la sede imperiale non più nell’isola ma in uno sperduto, sconosciuto lembo della Puglia: scelse la piccola e insignificante Foggia e, nel farla sede imperiale, volle trasformarla in un laboratorio di progetti. Questi riguardarono le scienze, la giurisprudenza, l’arte, l’architettura, la filosofia. Non potevano restare escluse la lingua e la letteratura. 

In quel centro politico e culturale del Regno e dell’Impero che fu Foggia per un quarto di secolo, la lingua italiana germogliò e progredì, sia pur a piccoli passi. Ed è un peccato che poco si sappia e poco si racconti di quella felice fase neonatale. In essa all’italiano fu riservato un ruolo di onore: fu lingua per poemi d’amore, da dedicare cioè a quella sfera espressiva, alta e nobile, frutto dell’ispirazione e del sentimento amorosi. Fu la donna ad essere celebrata nel primissimo italiano. E per farlo adeguatamente Giacomo da Lentini inventò il sonetto. Siciliano di origine, certamente si spostò per seguire il suo sovrano. Dunque non poté non frequentare la corte di Foggia. Il merito di aver promosso “il siciliano illustre” – continua Willemsen – “da nessuno è stato messo in evidenza in maniera più esaltante come da Dante nel suo trattato sulla lingua volgare (il De vulgari eloquentia). Poco dopo un altro ancora dei grandi maestri dell’arte poetica italiana di allora, Francesco Petrarca, avrebbe scritto con entusiasmo che in breve tempo la maniera di poetare, nata da poco presso i siciliani, si sarebbe diffusa su tutta l’Italia e oltre”. 

Quanto alla Sicilia, da imperatore Federico ci tornò, tra il 1221 e il 1234, ma non per poetare, bensì per sedare le ribellioni dei Saraceni (ed avviarne il trasferimento a Lucera, a pochi chilometri da Fogia) e per riportare all’ordine i baroni siciliani che, durante il suo lungo soggiorno in Germania, avevano spadroneggiato sull’isola. Dal febbraio 1234 non ci avrebbe messo più piede. Tutto ciò autorizza a ritenere che la storiografia abbia fatto non pochi torti negando non solo ai legittimi autori, ma anche agli stessi luoghi in cui questi operarono, la paternità dell’idioma italiano. Un grande grazie va dunque a Carl Arnold Willemsen per le sue ricerche sullo Svevo svolte a Foggia e in Capitanata nel secolo scorso. 

Ma torniamo a Dante. Quest’anno si celebra il settimo centenario della morte. Abbiamo detto che grazie a lui la lingua italiana è matura, solida, incisiva, tralasciando di dire – ma non è stata una dimenticanza – che è anche bella. Che sia bella è dimostrato dai milioni di persone che la coltivano nei cinque continenti e dal fatto che moltissime lo fanno non per necessità, ma per diletto. Nell’italiano trovano ciò che è più difficile trovare in altre lingue: la bellezza. Per questo motivo, e nonostante sia soltanto la ventesima lingua più parlata del pianeta, l’italiano è tra quelle più studiate. Alcune settimane fa Severino Salvemini, accademico dell’università Bocconi di Milano ed editorialista del Corriere della Sera, in un articolo dal titolo “La lingua ambasciatrice del Made in Italy” ha affermato che l’italiano è la quarta tra le lingue più studiate, dopo inglese, spagnolo e cinese (dunque prima del francese). Sarà vero? Il dubbio è legittimo e trova la sua giustificazione nella difficoltà obiettiva di effettuare misurazioni e censimenti affidabili.

La Società Dante Alighieri conta, in Italia e nel mondo, centinaia di istituti il cui compito principale è la diffusione della lingua e della cultura italiane. Andrea Ricciardi ne è presidente. Recentemente ha affermato che il successo dell’italiano si deve al fascino della sua musicalità e che “l’italiano non è una lingua imperiale, che si impone, bensì una lingua da scegliere» E no! presidente Ricciardi. L’italiano è una lingua imperiale a pieno titolo. Nacque, grazie all’Imperatore Federico II di Svevia, otto secoli fa nei cortili del Palazzo imperiale foggiano, luogo di studio ma anche di sollazzo, dove la corte si riuniva per discutere di scienza e di diritto (la cosiddetta Costituzione Melfitana fu solo promulgata a Melfi, mentre la sua concezione avvenne a Foggia), di astrologia e di matematica, per mettere a confronto le lingue e per filosofare, per formare versi e poetare. 

Nella foto di copertina, particolare del Codex Manesse, (Biblioteca Università di Heidelberg).

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.