La fiera “Più libri, più liberi” e i confini della nuova editoria

Da pochi giorni è uscito il mio nuovo romanzo, Blue Christmas. Un magico Natale. È con immenso piacere che ho abbandonato, per una volta, le relazioni problematiche e i delitti degli altri miei libri per dedicarmi ai toni romantici della tipica storia natalizia: Ralph Bennet, un avvocato di Boston assolutamente refrattario alla magia del Natale, si reca a New York per difendere un anziano signore accusato di tentato furto. Lì incontra alcune persone molto particolari, entra suo malgrado nelle storie personali di sconosciuti che gli toccano il cuore, e conosce una splendida donna. Tornando a Boston, poi, vive un’avventura davvero particolare. Tutto questo riuscirà a farlo ricredere sull’atmosfera dicembrina?

Cresciuta nel Natale di Dickens e di Frank Capra e in quello da sogno condiviso con i miei romantici genitori, mi è piaciuto molto scrivere questo libro; l’ho costruito con cura e con affetto, anche se, poi, nella mia ossessiva attività di correzione e ricorrezione delle bozze, ho apportato, in ultimo, un paio di modifiche tagliando e incollando metà frase senza coordinare l’altra metà (sic!). Il perfezionismo, si sa, è sempre nemico della perfezione. Vorrà dire che le prime copie stampate, quelle che contengono l’errore, saranno come il Gronchi rosa, varranno di più. Ho amato scriverlo, sì. Ciò che non ho amato e non amo è la giostra editoriale che ha prodotto. Come molti autori che si sono affidati ad un piccolo editore, sono stata fagocitata dalla girandola di libri e non solo libri della fiera della piccola e media editoria, che dal 5 al 9 dicembre, ha animato la Nuvola di Fuksas, all’Eur.

“Più libri, più liberi”. Più libri sicuramente; sul più liberi ho qualche dubbio. Probabilmente chi ha ideato lo slogan voleva riferirsi all’apertura mentale che offre la lettura, e, dunque, la libertà che ne consegue; ma le altre libertà?

Cominciamo con la libertà delle librerie che, nei cinque giorni in cui inizia a muoversi il carosello dei regali natalizi, subiscono la concorrenza degli stessi editori, i quali, in fiera, vendono al pubblico con lo sconto del 20%. Certo, alle grandi catene librarie importa poco, non così ai piccoli negozianti, però, che sono, poi, quelli che fanno la differenza, a mio parere, perché, considerati gli investimenti personali molto impegnativi necessari per mantenere il negozio, non possono che essere persone veramente appassionate del meraviglioso mondo di carta, e, come tali, accoglienti con il cliente, gentili, disponibili e competenti ad elargire consigli. La fiera del libro, come accade in altri settori merceologici, dovrebbe essere una fiera di mera esposizione, idonea a mettere in contatto editori, librai, autori e tutto il sottobosco di distribuzione, consegna e pubblicità. Per far ciò dovrebbe essere organizzata al più tardi a settembre.

Creare, in periodo prenatalizio, un mercato librario parallelo con vendita al dettaglio, peraltro scontata, rappresenta una pesante concorrenza per i negozianti e, a mio modesto avviso, annulla lo scopo primario della fiera, che dovrebbe essere quello di far conoscere la piccola e media editoria a chi opera nel settore.

Tuttavia c’è chi ritiene che sia proprio il pubblico e non il libraio il vero destinatario della fiera. È un’opinione basata sulla presunzione di mancata vendita, come direbbe un leguleio: ogni piccolo e medio editore, avendo in catalogo valanghe di titoli, non può sperare di essere validamente esposto nelle vetrine delle librerie; da qui la legittimazione a cercare diffusione diretta. In pratica si vuole dare una veste logica ad un sistema illogico: se si accetta di pubblicare qualunque libro, anche l’autobiografia di un nullafacente, le poesie di un analfabeta, i deliri fantascientifici di un ignorante, il romanzo di chi non sa descrivere nemmeno ciò che ha mangiato a pranzo, è chiaro che occorre vendere ad un pubblico distratto dal carosello natalizio, poiché il libraio, quello serio, quello che conosce il valore di un buon libro, non comprerà mai certa paccottiglia e, quel che è peggio, bollerà l’editore con un marchio di scarso pregio, facendo di ogni erba un fascio, talché da lui non comprerà nulla, nemmeno i libri ben scritti. L’illogicità sta nell’aver trasformato l’editoria in una Babele di libri.

E veniamo alla seconda libertà ignorata, quella degli autori che restano impigliati nelle maglie di certi editori; editori che non rappresentano tout court la piccola e media editoria, fortunatamente, ma che all’interno di essa trovano spazio e partecipano, dunque, a pieno titolo alla fiera romana.

Quello librario, oggi, sembra diventato un mercato di carta, da soppesare con la bilancia  – tanto al chilo –  e non con l’intelligenza. Molti sono i bei libri in circolazione, ovviamente, ma altrettanti, se non di più, sono i libri pessimi che rispondono a bieche logiche di mercato.

Alcuni dei grandi editori, forti del fatto che pubblicano molti libri splendidi, non si fanno scrupolo ad inginocchiarsi davanti a guadagni certi ancorché dovuti a libri “illeggibili”, scritti da nomi noti, a prescindere dal motivo della loro notorietà: opinionisti dalle idee poco ortodosse, escort che hanno sedotto uomini di potere, faccendieri, o facoltosi personaggi che raccontano la loro brillante ascesa al mondo dei miliardari, ossia una sorta di “mi-sono-fatto-da-me” casualmente mai inquinato da notizie relative a raccomandazioni e bustarelle. Dovrei prendermela anche con il mondo dei lettori, ovviamente. Legge della domanda e dell’offerta.

I piccoli editori, invece, pescando nel profondo oceano degli sconosciuti, nel quale nuoto anche io, evitano di applicarsi quel minimo per scoprire talenti, come facevano i grandi editori del passato. Pubblicano di tutto. Se, poi, nel ciarpame capita anche qualche scrittore serio, meglio. L’importante è lucrare quanto più possibile, coprendo i costi e ottenendo buoni ricavi sin dall’inizio. Se così non fosse, sarebbe inspiegabile, in un momento di crisi editoriale, il costante affacciarsi sul mercato di nuovi editori, a meno che non si voglia loro attribuire un velo di santità, una vocazione come operatori di “cultura”.

Alcuni chiedono contributi di edizione che non sono affatto “contributi”, ma rappresentano la copertura dell’intero costo di edizione del libro. Il messaggio di questi editori è chiaro e deprimente: scrivi quello che vuoi, come vuoi, anche se non sai scrivere neppure la lista della spesa, tanto io non ti leggo, né ho un editor che lo faccia per me  – altra figura che la dilagante diffusione della piccola editoria ha quasi cancellato e che, invece, è di fondamentale importanza -; è sufficiente che tu paghi, che io guadagni e che tua nonna sia contenta di sfoggiare, sulla mensola del salotto, un libro col tuo nome.

Altri non chiedono il contributo, ma vanno sul sicuro stampando poche copie iniziali e riservandosi di stampare le altre su ordinazione, il cosiddetto print on demand. Tutto ciò grazie a distributori pigri, i quali limitano la propria attività alla faticosissima compilazione di lunghe liste di titoli ed autori da mandare ai rivenditori, dicendo loro pressappoco: questi sono i libri della casa editrice “Sono-Piccola-Ma-Crescerò”; io non te li illustro, non te ne segnalo uno o due in particolare, non separo il grano dalla gramigna; vedi tu se dal titolo e da tre righe di sinossi vuoi ordinarne qualcuno. Ora, sapendo che i piccoli editori solitamente pubblicano di tutto, senza filtri seri, quale negoziante sano di mente potrebbe accollarsi il rischio di ordinare libri da costoro? È più facile che ignori completamente le liste della piccola e media editoria. Ed ecco che entra dalla finestra ciò che è uscito dalla porta: quello stesso distributore, che non ha speso mezza parola per promuovere i titoli validi del piccolo e medio editore, offre al libraio l’opportunità di presentare ordini per tutti i libri non acquistati. In questo modo, se, per caso, qualcuno dovesse andare in libreria e chiederne una copia, il libraio potrà fargliela avere, previa attesa, in alcuni casi, di parecchi giorni. In pratica, secondo questo basso paralogismo, che vede distorto il significato proprio di “distribuzione”, il libro si considera “distribuito” su tutto il territorio nazionale quando è disponibile ad essere ordinato. Totò direbbe: “Ma mi faccia il piacere!”

Tutto questo indotto di attività editoriali, distributive et similia pare incida sui costi per il 60% circa, poi c’è il giusto guadagno del libraio, che si aggira intorno al 30%, e gli oneri fiscali da assolvere. In buona sostanza, l’autore che si rivolge al piccolo o medio editore è libero, liberissimo di pubblicare, ma del frutto del suo intelletto, alto o basso che sia, gli torna poco più di qualche nocciolina e non può nemmeno contare, come forma di pagamento alternativa, sul fatto che il suo nome emerga nel circuito librario, occhieggi dalle vetrine delle librerie, sia memorizzato da un lettore sconosciuto e soddisfatto del libro. No, non può contarci. Infatti, i libri “distribuiti su tutto il territorio nazionale”  – che, in corretta traduzione burocratese-italiano, significa “ordinabili a richiesta in alcune librerie” –  vengono venduti solo agli amici che l’autore stesso contatta. E sì, perché, senza vetrina e senza un degno corredo pubblicitario chi altro può ordinarli? Nessuno è a conoscenza di quelle pubblicazioni, a meno che non sia stato folgorato dallo Spirito Santo sulla via di Damasco ed abbia visto apparire davanti a sè la copertina di un libro misterioso da andare subito a comprare. Forse, se i piccoli e medi editori rinunciassero a pubblicare il ciarpame e si costruissero un nome attraverso libri seri, non avrebbero bisogno di ricorrere all’escamotage del libro “ordinabile”, ma vedrebbero le librerie prendere in seria considerazione i loro titoli. In pratica il ciarpame è come la pece: vi resta invischiato tutto, anche i titoli buoni.

A giustificazione di questo poco condivisibile sistema di gestione delle opere meno note, mi viene spesso consigliato di smettere di illudermi, poiché l’editoria di un tempo, quella di Leo Longanesi, di Arnoldo Mondadori, quella delle valutazioni di Italo Calvino per Einaudi, è morta. Ecco che, di fronte a questa ferale notizia, l’avvocato penalista che è in me prende il sopravvento sulla scrittrice e mi chiedo il perché non si sia mai indagato sulle cause di questa dolorosissima scomparsa. Possibile che nessun pubblico ministero abbia mai richiesto l’autopsia? Eppure un crimine c’è stato e di non lieve conto: con questo nuovo modo di pubblicare e “distribuire” libri, sono stati vilipesi, calpestati, massacrati tutti gli editori che, da Gutenberg in poi, hanno fatto la storia del libro, che ci hanno regalato cultura.

L’argomento è interessante: quasi quasi ci scrivo un libro, tanto qualcuno che lo pubblica e lo “distribuisce” rendendolo “ordinabile” lo trovo!

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