Iqbal, un bambino in lotta per i diritti di tutti i bambini

Il 16 aprile di 24 anni fa veniva ucciso Iqbal Masih, 12 anni, simbolo della lotta allo sfruttamento del lavoro minorile.

“I bambini dovrebbero lavorare solo nei sogni

Iqbal nasce in Pakistan nel 1983, in una famiglia molto povera. Ha solo quattro anni, quando le sue manine apprendono l’usura della fatica: i suoi genitori si indebitano per un prestito in denaro di circa 600 rupie (meno di 6 dollari) e Iqbal viene ceduto al proprietario di una fabbrica di tappeti per poter estinguere il debito. Lontano dalla sua famiglia, Iqbal lavora senza sosta, tra le 10 e le 12 ore al giorno, sottonutrito ed incatenato ad un telaio impedendogli di fuggire, per lo stipendio di una rupia al giorno (circa tre centesimi di euro). Iqbal non è l’unica vittima, insieme a lui altre centinaia di bambini pakistani. Ma non importa poi molto quanto effettivamente lavori Iqbal: piuttosto che ridursi, il debito diventa sempre più grande, e ancora più grande, raggiungendo migliaia di rupie.

Operaio, attivista e sindacalista

Iqbal ha più coraggio che paura: nel 1992, dopo aver appreso dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (BLLF, Bonded Labour Liberation Front) che il lavoro forzato è stato dichiarato illegale dalla corte suprema del Pakistan, tenta la fuga. Una prima denuncia ad un poliziotto corrotto gli garantirà un ancor più doloroso rientro in quella fabbrica di tappeti, ma Iqbal non si arrende. Nonostante le ripetute percosse da parte del padrone, si rifuta di lavorare e tenta numerose volte di fuggire, finché non ha la fortuna di incontrare ” i buoni”, gli uomini del Fronte, a cui racconta tutta la sua storia.

Iqbal ce l’ha fatta

Ormai libero dalle catene, con il sostegno e la protezione degli uomini del Fronte, Iqbal si mette a lavoro per liberare tutti gli altri bambini. Inizia pertanto ad intrufolarsi segretamente nelle fabbriche, a raccogliere prove e a scattare foto, per poter documentare le condizioni drammatiche dei piccoli lavoratori. In pochissimo tempo, egli diventa il simbolo della libertà, del riscatto sociale e di un’alternativa possibile. Inizia a girare l’Europa, fino ad arrivare negli Stati Uniti, prende parte ad importanti conferenze internazionali, denunciando ovunque la realtà dello sfruttamento minorile. Nel frattempo ha la possibilità di frequentare la scuola e tornare alla vita di un semplice ragazzo. La sua campagna è efficace e le autorità pakistane iniziano ad ordinare la chiusura di diverse fabbriche sul territorio, liberando oltre 3000 bambini pakistani.


E’ festa, giorno di Pasqua, Iqbal gioca e ride come un bambino, un bambino vero, ormai libero. Ma Iqbal è anche un bambino scomodo, che ha osato mettere i bastoni tra le ruote di una grande macchina in grado di far girare un sistema economico marcio e fonte di cospicui guadagni. E’ il 16 aprile 1995, Iqbal Masih viene ucciso a bruciapelo con un colpo di pistola. Sulle vicende della sua morte aleggiano tuttora mistero ed omertà (o forse semplicemente dimenticanza e scarso interesse); sono in pochi a credere che si sia trattato della follia solitaria di uno sconosciuto, i più sostengono che Iqbal sia stato vittima “della mafia dei tappeti” e degli interessi dello sfruttamento minorile.

“Oggi sono libero anche io”

In occasione del discorso tenuto durante una conferenza internazionale a Boston, Iqbal si esprime cosi:
<< Oggi qualcuno mi ha parlato di un grande uomo americano: il suo nome era Abraham Lincoln. Io voglio fare con la mia nazione quello che lui ha fatto per voi: voglio dare la libertà agli schiavi. Voi siete liberi e finalmente oggi sono libero anche io. Vi porto il saluto di tutti i ragazzi della mia nazione; non si risolvono i problemi dei paesi poveri facendo lavorare i bambini; noi abbiamo dei diritti, siamo persone anche noi. Ci sono 200 milioni di bambini tenuti in schiavitù nel mondo, hanno il diritto di divertirsi, di stare con le loro famiglie, il diritto di essere bambini. Dobbiamo dire “No!”, no ad ogni a qualsiasi prodotto fabbricato dai bambini >>.

Lo sfruttamento minorile ci riguarda, tutti

Le ultime stime globali (ILO, 2019) indicano che ancora oggi circa 152 milioni di bambini sono nelle reti del lavoro minorile (circa un bambino su dieci nel mondo). Il lavoro minorile è un problema globale, che riguarda anche i paesi industrializzati, presente anche in Italia. Si verifica in molti settori, dal turismo sessuale al settore tessile, come avviene ad esempio in Pakistan, dove i bambini vengono richiesti perché le loro piccole mani permettono di lavorare più facilmente i tappeti; si dichiara tuttavia che 7 bambini su 10 (il 71%) lavorano nel settore dell’agricoltura. Tra gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite vi è quello dell’Allenaza 8.7, volto a sradicare il lavoro forzato, la schiavitù moderna, la tratta degli esseri umani, impegnando tutti gli stati e la comunità interazionale a lavorare per porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme entro il 2025.

Non è sufficiente ratificare convenzioni internazionali. Il primo passo è trasporre le norme internazionali nelle leggi nazionali di tutti i paesi e disegnare politiche concrete di implementazione. La legislazione da sola non può sradicare il lavoro minorile, è tuttavia altrettanto impossibile eliminare questa piaga senza un quadro normativo adeguato ed efficace. L’ intervento di regolamentazione e standardizzazione da parte dei governi deve essere accompagnato dal dialogo sociale e da un processo di coscientizzazione collettiva.

Siamo parte del problema o parte della soluzione?

Un’economia globalizzata che nasconde e gioca sull’ignoranza dei suoi consumatori, che fa leva sul senso di indifferenza, impotenza e crescente rassegnazione. Ma anche sulla nostra tavola e a casa nostra quel lavoro minorile può essere presente: fumando una sigaretta, indossando una t-shirt, versando dello zucchero, sorseggiando un caffè, vestendo una scarpa. É la domanda a determinare l’offerta. “Non possiamo arrivare dappertutto”, ma informarci è un nostro diritto ed un nostro dovere. La consapevolezza può essere accresciuta solo attraverso l’informazione: interrogarci sulla provenienza degli indumenti, del cibo, dei prodotti che quotidianamente acquistiamo rappresenta il nostro spazio di manovra. Se fossimo più informati ed accorti potremmo tutti concorrere come cittadini-consumatori a stimolare un’economia rispettosa dei diritti umani.
Lo sviluppo non può non essere sostenibile e nessuno può esimersi dal sentire questa responsabilità.

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