Io e Sinatra: cinema, arte e senso dell’amore

Frank Sinatra e qualche sorso di ottimo whisky scozzese. Una serata tranquilla a meditare sul senso dell’amore. “Fly me to the moon, let me play among the stars …” (“Fammi volare sulla luna, fammi giocare tra le stelle”), canta Sinatra. L’amore è, dunque, un volo verso la luna, un gioco tra le stelle? È una fuga oltre l’atmosfera? È un viaggio nello spazio profondo? Forse è solo una passeggiata nell’anima, dove è racchiuso l’universo intero. Ma quando abbandona gli spazi cosmici interiori ed affiora nel mondo reale, un mondo fatto anche di parole, cos’è l’amore? Non è mai impresa facile parlarne; men che mai comunicarlo alla persona che amiamo. Dire “ti amo”, dirlo seriamente, intendo, è come lanciarsi col deltaplano: un meraviglioso viaggio in un cielo dove il sole splende imperioso, ma non senza qualche brivido. E se l’altro non condividesse? Se esternando l’amore rovinassimo tutto?

“… and then I go and spoil it all by saying somethin’ stupid like I love you …” (“… e poi inizierò a rovinare tutto dicendo qualcosa di stupido come ti amo”), canta ancora il grande Frank. Fa un po’ paura, quella frase, diciamocelo. Però è bella più del bello, è profonda ed è una gran persona quella che riesce a pronunciarla per prima, senza cedere al timore d’essere sola. Di sicuro assume proporzioni infinite, nel cuore degli amanti. Quando si fa realtà, però, scendendo nei fatti, le proporzioni cambiano, tra uomo e donna. Le donne, di solito, calibrano l’intensità delle parole secondo rigidi e complessi schemi matematici da proiettare sulle azioni, secondo algoritmi di cui non lasciamo trapelare i criteri. Nessun libretto delle istruzioni, sia chiaro. L’uomo deve fare quello che gli viene spontaneo ma, se il suo pensiero ed il suo modo di fare non sono allineati con quelli che la donna ritiene consoni, il volto di lei si trasforma all’improvviso in quello di un’upupa affamata, lungo, serio, affilato, concentrato sulla preda, ed il povero malcapitato, non potendo essere ingoiato come un insetto, viene spedito al centro di un buco nero senza nemmeno una torcia. Lì, forse, troverà la strada per tornare ad una realtà parallela dove la relazione che stava vivendo, distrutta da un ordigno di cui non sa, né saprà mai nulla, è così finita da richiedere una nuova parola per dirlo. In un simile scenario, è chiaro e comprensibile che resti totalmente basito, come l’uomo di John Lennon per il quale la vita è quella cosa che accade mentre è impegnato a fare altro. Non gli si può dare torto se decide di andare avanti per inerzia, con la velocità di un bradipo. Un po’ per l’assenza del famoso libretto delle istruzioni, un po’ per la sua natura, avanza molto cautamente, fino all’immobilità e, soprattutto, alla più assoluta sordità esistenziale. Woody Allen in Tutti dicono I Love You si meraviglia che la sua storia d’amore sia finita. Gli amici gli chiedono se non ci sia stato un qualche segnale premonitore. Lui risolutamente nega: “Mi prendi per un idiota? Che genere di segnale mi avrebbe mandato? Secondo te avrei trovato la foto di lui tra le sue mutande, oppure ha mormorato il suo nome mentre facevamo l’amore nell’orgasmo? No, perché è successo, ma io non ho capito, non ho capito …”.

Non che nella fase iniziale dell’amore gli uomini procedano più velocemente. Nella migliore delle ipotesi tengono l’andatura di quella tartaruga, che, secondo Zenone, corre più veloce di Achille. Personalmente non ci trovo nulla di sbagliato. L’amore dovrebbe generare in tutti noi meditazioni accurate; e, poi, il corteggiamento, il lento scoprirsi a vicenda, il primo appuntamento, i primi baci, la morbida intensità della fiamma che aumenta poco a poco sono pura magia. Ciononostante, la gran parte delle donne non la pensa così. Come Cenerentole strafatte di cocaina, sono per metà principesse romantiche e per metà iene iperattive. Il fuoco femminile genera, sin dalle prime ore, una rivoluzione telefonica con le amiche, un’entropia di pensieri, di interpretazioni, di progetti che, nell’arco di una settimana, arrivano già alla chiesa in cui sposarsi, alla casa da comprare insieme ed al numero di figli da mettere al mondo, e ciò si scontra in modo traumatico con il cauto e riflessivo incedere dell’uomo, che assume uno sguardo vagamente stupefatto a causa del moto convulso della donna; uno sguardo che assomiglia a quello di un allocco disturbato dalla luce, e che, usualmente, le donne scambiano per amore. No, è paura; terrore dell’ignoto, del tornado, del caos che una donna può far entrare nella vita di un uomo. Sentimenti ed ormoni portano gli uomini verso noi donne, ma è come se per raggiungere la passione, fossero costretti a salire sull’astronave di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo. Alla fine del film, Richard Dreyfuss è attratto da quello che può trovare in quella specie di lampadario volante, ma non è che proceda di corsa come ha fatto per raggiungere quel luogo. No. Ha qualche comprensibile remora, ora che le cose si stanno concretizzando. Tuttavia viene circondato dagli alieni, preso per mano e condotto dentro. In realtà viene fatto prigioniero. Secondo me, sono E.T. femmine.

L’amore non c’entra niente con la fantascienza, si potrebbe obiettare. Forse. In realtà, conosco coppie che ancora non sanno di vivere su pianeti diversi, ma non è questo il punto. Io sono donna e noi donne, almeno in buona parte, siamo imbattibili ad usare il cinema come paradigma d’amore, anche quando non lo è. Noi non vediamo un film, assistiamo ad una storia vera; riteniamo di essere affacciate alla finestra più che sedute davanti ad uno schermo. Ridiamo, piangiamo, ci emozioniamo; e, come in ogni storia vera, rischiamo persino di innamorarci del protagonista, o, meglio, del suo ruolo tradizionalmente romantico, accudente e galante, espressione, parimenti, di intelligenza e sensualità. La bellezza, infatti, conta poco per noi donne. Noi vogliamo il fascino, che è tutt’altra cosa. “Lui sì che sa amare!” esclamiamo in un sospiro. Così, quando usciamo con un uomo che non assomiglia al Clark Gable di Via col Vento, al Gregory Peck, di Vacanze Romane, al Brad Pitt di Vi presento Joe Black, al Jude Law de L’amore non va in vacanza, allo Hugh Grant di Love Actually, al Jean-Louis Trintignant di Un uomo e una donna siamo tentate di scaricarlo a priori, senza neanche provare ad apprezzare il suo lato romantico, la sua bellezza, la sua sensibilità. Esclusi gli egocentrici e gli anaffettivi (ne esistono in abbondanza anche nell’universo femminile, ovviamente), ci sono molti uomini meravigliosi, che si innamorano di una donna per volta, che sanno capirla, coccolarla, viziarla come una principessa, amarla come una dea, desiderarla come una femmina peccaminosa, unica stella nel loro firmamento; ma noi, catturate dall’amore cinematografico, rischiamo di non dare loro alcun modo di palesarsi.

Certo, il cinema ha una sua indiscutibile attrattiva …

Richard Gere è Lancillotto, ne Il primo cavaliere; un Lancillotto un po’ troppo American Gigolo, ma poco importa ai fini della storia. Incontra Ginevra prima che lei raggiunga Artù, il suo promesso sposo, ossia Sean Connery, tanto per non farsi mancare nulla. Bene, Lancillotto, folgorato a prima vista, la bacia appassionatamente. Lei gli fa giurare sul suo onore che non l’avrebbe più baciata. Lui giura di non baciarla più se non su sua richiesta. Qualche giorno dopo il bel cavaliere entra a Camelot dove si sta festeggiando il fidanzamento di Artù e Ginevra. La futura regina, sollecitata in ciò dal popolo e con il permesso del suo fidanzato, promette un bacio a colui che supererà tutte le insidie di una pericolosissima giostra medievale. Inutile dire che Lancillotto affronta impavido il pericolo senza neanche proteggersi con le giuste armature. Rischia la vita per quel bacio, come se ne avesse più d’una da perdere. Quando, infine, deve riscuotere il suo premio, mantenendo la promessa fatta nel bosco, sussurra a Ginevra: “Chiedetemelo”. Lei rifiuta. Lui insiste: “Chiedetemelo”. Lei sottolinea la negazione con un “Mai”. Allora Lancillotto, rivolgendosi al popolo che sta aspettando, esclama: “Non oso baciare una Signora così bella, ho solo un cuore da perdere” e si inginocchia per baciarle la mano. Ecco, in quel bacio mancato c’è tutto: l’ardore del loro primo incontro, la parola mantenuta, la promessa di un amore immortale. Per me è in assoluto il “bacio” più romantico di tutti i tempi.

Ah, l’amore!

Ne sono state celate di cose, dietro il suo nome. Secoli di pensieri, parole, poesie.

“E’ poca cosa il pianto / Sono brevi i sospiri / Eppure, per fatti di tal guisa, / Noi, uomini e donne, moriamo”  scrive Emily Dickinson. Niente di più vero: tra speranza e realtà, tra amore e non-amore c’è lo stesso sottile confine che esiste tra vita e morte. “Odi et amo” canta Catullo, preda d’una storia d’amore estranea agli ottativi disperati del suo cuore. Sì, l’amore può essere anche problematico. Nel cinema, per tornare alla sola e vera realtà di molte donne, dolcezza e tormento sono spesso accompagnati da un destino beffardo, segnando tragici e travolgenti amori, come quello di Gary Oldman e Winona Ryder in Dracula.

Ecco, Dracula. Una delle più intense e struggenti storie d’amore, secondo me. Lui, per averla persa, rinnega Dio e vive nelle tenebre eterne, ma, quando infine ritrova la sua anima reincarnata e può condurla con sé, si ferma: la ama troppo per dannarla. Troppo … un avverbio che incarna, invero, l’essenza dell’amore. Il cuore che si innamora non può che essere il “troppo”, l’Everest, l’oceano, l’infinito.

A volte, certo, l’amore da problematico diventa fortemente scompigliato e fa soffrire. Pensiamo alla grande bugia dantesca. “Amor che a cor gentil ratto s’apprende … Amor che nullo amato amar perdona”. Balle! A volte amiamo senza essere riamati; altre volte l’amore, semplicemente, cessa di esistere. “I’m through with love, I’ll never fall again …” (“Ho chiuso con l’amore, non m’innamorerò più”) canta la sensualissima Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo; “Said adieu to love. Don’t ever call again. For I must have you or no one …” (“Ho detto addio all’amore. Non chiamarmi più. Perché devo avere te, o nessuno”). Si fa presto a dire “ho chiuso”; in realtà è un assioma che in sé contiene il proprio contrario. Nonostante tutto, infatti,  non è pensabile non tornare ad amare. La via di fuga passa per le rovine della speranza su cui si costruiscono nuove speranze. Quella forza dirompente che ci trascina nel suo vortice di sensazioni contrastanti, sempre ignote, delicate, violente, meravigliose, deliranti non è cosa che possa indurre alla rinuncia.

Barbra Streisand, ne L’amore ha due facce, è un’acuta e divertente insegnante universitaria che chiede ai suoi studenti il motivo per cui nessuno sembra volersi sottrarre all’innamoramento, pur nella certezza che, a volte, può recare dolore. Gli studenti forniscono soluzioni psicologicamente ineccepibili: esigenza di interconnessione, perpetuazione della specie … Lei li guarda ammirata per l’alto livello intellettuale delle loro risposte, ma delusa per lo scarso senso dell’amore che contengono. Continuiamo ad innamorarci, insegna loro, perché l’amore “è un’esperienza che ci fa sentire completamente vivi; ci rigenera; risveglia tutti i sensi; ingigantisce ogni emozione. La nostra realtà quotidiana è scossa e siamo catapultati in Paradiso. Può durare anche un solo momento, un’ora, un pomeriggio, ma questo non toglie una virgola al suo valore, perché ci lascia dei ricordi preziosi che conserveremo per tutta la vita …  Finché l’amore dura, cazzo, non c’è niente di meglio”.

Come darle torto? Innamorarsi significa raggiungere un luogo di perfezione e completezza; significa vedere il mondo al suo meglio. Sulla luce dei sentimenti si staglia un senso esaltato del bello, dell’armonia, dell’unicità, dell’eleganza, della perfezione. “Colei che sola a me par donna” recita Petrarca. L’amato diviene atopos: è intelligente, affascinante, originale; il suo volto è bello che non si può dire ed il suo corpo non si può non amare. Naturalmente agli altri le cose appaiono leggermente differenti, lo leggi nei loro occhi quando ti guardano stupiti e si chiedono se sia un problema risolvibile con un paio di occhiali o non, invece, qualcosa di più grave. Che importa, però? Conta quel che abbiamo dentro, come ci sentiamo.

“Ti amo quando hai freddo e fuori ci sono trenta gradi; ti amo quando ci metti un’ora a ordinare un sandwich; amo la ruga che ti viene qui quando mi guardi come se fossi pazzo; mi piace che, dopo una giornata passata con te, sento ancora il tuo profumo sui miei golf e sono felice che tu sia l’ultima persona con cui chiacchiero prima di addormentarmi la sera. E non è perché mi sento solo; e non è perché è capodanno. Sono venuto stasera perché quando ti accorgi di voler passare il resto della vita con qualcuno, vuoi che il resto della vita cominci il più presto possibile”. Non c’è donna che non trovi irresistibile il Billy Crystal di Harry ti presento Sally, quando dichiara così il suo amore. Tutte noi vorremmo essere amate per i nostri difetti più che per i nostri pregi e tutte noi, anche le più ciniche e le più balorde, le più indipendenti e le più anaffettive, subiamo il fascino di un uomo intenzionato a  trascorrere con noi il resto della vita. Non importa se, dopo un po’, lui si stufa di vedere bigodini e maschere antirughe, tristemente constatando che non trasformeranno mai la sua donna in ciò che lui vorrebbe, ossia un misto tra Monica Bellucci e Charlize Theron; non importa se lei si stufa di trovarlo spiaggiato sul divano a guardare la partita, come un pigro balenottero, invece di sfoggiare il fisico ed il sex appeal di Orlando Bloom o di Clive Owen; non importa se i due arrivano a dirsi cose diverse da quelle che pensano, come in Un sogno lungo un giorno di Coppola, dove le canzoni di Tom Waits interpretano i pensieri delusi di chi, a parole, ancora se la racconta. Il “per sempre” ha un effetto più o meno garantito. Non dico che non spaventi. A volte suona più come una minaccia che come una promessa. In chiesa si trasforma in “Finché morte non vi separi” … praticamente una clausola vessatoria. Sarebbe più coerente dire “Finché vi amerete”. Tuttavia, dai finali delle fiabe ai sonetti del mio amato Bardo, all’amore vero si abbina l’impegno per la vita e noi ce la beviamo: “Amore non è amore / se muta quando scopre un mutamento / o tende a svanire quando l’altro s’allontana. / Oh no! Amore è un faro sempre fisso / che sovrasta la tempesta e non vacilla mai … amore non muta in poche ore o settimane, / ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio; / se questo è errore e mi sarà provato, / io non ho mai scritto e nessuno ha mai amato”.

Il “per sempre” non attiene solo al Tempo, è anche un fatto d’anime. Implica gemellaggi che superano le barriere della vita e della morte: l’amore vero fa che le anime si riconoscano e si fondano. E, così, anche il semplice prendersi per mano ha una sua valenza eterna: le mani degli amanti non si stringono per necessità, ma si allacciano presaghe dell’unione d’anime, si prendono, si compenetrano, diventano l’una parte dell’altra come fossero una sola. Sul tavolo di un ristorante, nella sala di un cinema, per la strada. Non si perdono mai: “così vicino che la tua mano sul mio petto è mia / così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno” scrive Neruda. Tenendosi per mano, gli amanti possono volare, come ne La Passeggiata di Chagall.

L’amore è sempre un trionfo di irriducibile tensione; è un impero di emozioni. E’ la Geometria della Notte di Vettriano; è il Bacio di Hayez. E’ l’avidità estrema, il desiderio infinito di vivere sempre nuove emozioni, mai sazi, mai paghi di quanto si è avuto. “Ancora”, sembrano dire gli amanti; “ancora”; “ancora” … perché, come ha sintetizzato Hikmet, “il più bello dei mari / è quello che non navigammo […] e quello di più bello che vorrei dirti / non te l’ho ancora detto”.

Cosa posso aggiungere? L’amore è un cocktail perfetto: due quarti di sentimento, un quarto di passione, un quarto di romanticismo, una spruzzata di sorrisi, una fetta di incoscienza, due foglioline di confidenza amicale. Agitate bene e gustate lentamente. Se potete, sorseggiatelo ascoltando Frank Sinatra.

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