Intervista con la scrittrice Elvira Seminara: necessaria la riconversione e la contaminazione dei linguaggi

Elvira Seminara vive tra Catania e Roma. Giornalista professionista dal ‘91, scrittrice e pop-artist, crede nella riconversione e contaminazione dei linguaggi (e delle cose). Prima di dedicarsi interamente alla narrativa è stata redattrice nel quotidiano La Sicilia, prima come cronista e poi opinionista della storica rubrica quotidiana “Oblò”. Come docente a contratto ha insegnato Storia e tecnica del giornalismo nella facoltà di Lettere a Catania, dove ha curato diversi laboratori di Narrazione creativa. Tiene corsi di Storytelling in varie città italiane e a Catania per gli universitari della Scuola Superiore.

Tra le sue pubblicazioni, nel 2008 il romanzo “L’indecenza” (Mondadori); nel 2009 “I racconti del parrucchiere” (Gaffi editore); nel 2011 “Scusate la polvere” (Nottetempo), nel 2013 “La penultima fine del mondo” (Nottetempo). L’ultimo suo romanzo, del 2015, è “Atlante degli abiti smessi” ( Einaudi).

Nella primavera del 2014 il teatro Stabile di Catania ha messo in scena la dark-comedy “Scusate la polvere” tratta dal suo romanzo, e nel 2015 lo spettacolo “L’indecenza” sceneggiato dal suo romanzo per la regia di Gianpiero Borgia. Suoi racconti sono presenti in antologie Mondadori, ed è tradotta in diversi Paesi.  L’ultimo suo romanzo, Atlante degli abiti smessi, ha generato una mostra itinerante di installazioni realizzate con materie di scarto portate dai lettori.  Titolo: “Reperti e referti di un romanzo-armadio”

Lei si definisce una “Cantascorie”.

In un tuo recente articolo su L’Espresso hai scritto che “la letteratura è un posto libero, e salubre, per la comunità”. Quale comunità? 

Ogni biblioteca è un granaio pubblico che ammassa riserve contro l’inverno – diceva così, la Yourcenar. E siamo tutti immersi, ansimanti, in un lungo e torrido inverno. A volte durante un incontro in libreria fermo gli occhi sul pubblico, a trattenere con me quell’immagine – anziani che arrivano in ritardo, quelli che piegano con cura il cappotto sulla sedia, studenti con lo zaino, ragazze che scrivono sul cellulare, amiche felici di vedersi. E’ un’umanità varia e diversa, svagata eccentrica e quasi mistica, quella che va alle presentazione dei libri. Lo vedi dagli occhi lucidi e sfuggenti, le mani inquiete. Fanno comunità anche se non si conoscono, e in quei tardi pomeriggi bui, mentre fuori da queste parole piove, in libreria c’è una luce tiepida e rosata, ci si scalda. Questa comunità invisibile ai più, che non sa di essere comunità, si unisce idealmente a tutta la gente che scrive o legge i libri, sulle poltrone di casa o nelle biblioteche, sulle panchine o nei prati, e attraversa tutto il mondo, brillando specialmente nei paesi in cui i libri sono un bene raro e prezioso.

La polemica sull’impoverimento della lingua italiana è una quaestio ruggente anche sui social. Che destino attende la lingua di Dante?

“Non sono una catastrofista, e sono più appassionata del futuro che del passato. La lingua è un organismo vivo, e come tale si nutre e cresce, si ammala, guarisce e soprattutto si rinnova. Deve difendersi dai virus, dalle intossicazioni, ma può farlo solo trasformandosi, nella continua lotta fra puristi e innovatori, accademici e sperimentali. Io credo che la resistenza attiva, la rigenerazione continua, passino per la lingua letteraria, e come sostenevo in quell’articolo su L’espresso, che tanta polemica ha sollevato, spetta agli scrittori “fantasticare” la lingua, sottrarla ai binari del parlato standard e del lessico mediatico, reinventarla e reintegrarla, anche recuperando scorie, neologismi, rinnovando lemmi del passato. Insomma, dovremmo accostarci alla nostra lingua col sentimento di uno straniero, con stupore e sbigottimento, come diceva Derrida. Credo che le donne, sempre più presenti come lettrici e come autrici, contribuiranno in grande misura a questo rinnovamento”.

Oggi in Italia che ruolo esercitano gli intellettuali?

“In Francia intellettuale è sinonimo di filosofo, si usa lo stesso termine per evocare una sorta di pensatore sistematico. In Italia Pasolini e Sciascia sono stati gli ultimi a incarnare un modello di pensatore contro, polemico col sistema e titolare di un’idea indipendente. Io non vedo vere voci di dissenso, o più semplicemente, nel momento in cui un pensiero passa dalla tv o dai giornali, perde ogni potere di dissenso, è nel mercato. E nel momento in cui scorre sul web è già massificato, neutralizzato dal flusso web”.

Che rapporto hai con la rete e con i social network?

“Necessario e misurato, senza ossessioni, più che altro perché amo muovermi, stare all’aria aperta e incontrare amici dal vero – cose impossibili davanti allo schermo.”

In questa nostra liquida società quali sono i tuoi punti fermi?

“Un filo teso tra i desideri, invisibile e resistente. Il mio idolo è Philip Petit, il funambolo. La sua lezione è una sfida alla gravità molesta della vita. Siamo tutti equilibristi, tanto vale farlo con metodo, da professionisti. Guardando il cielo anziché le pozzanghere”.

Che porti con te su un eremo?

“Io sono sull’eremo tutto il tempo che scrivo, quindi la domanda per me è Cosa porti quando torni dall’eremo? Vorrei portare bacche mai viste, sassi miracolosi, suoni delle sfere raccolti in un barattolo, e polvere di stelle in un altro. E trovare qualcuno, a valle, con cui condividere il bottino.”

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