Intervista a Federico Varese. La mafia tra realtà e fantasia

A5C2BC8C-9732-4667-B9BA-C4579F48CCD7Era il 1972 quando uscì il primo film della trilogia di Francis Ford Coppola tratta dal romanzo di Mario Puzo Il Padrino. Il clamoroso successo di pubblico e di critica che la pellicola riportò ebbe anche un effetto secondario non trascurabile: il fruitore del messaggio artistico non solo fu deliziato dalla regia, assolutamente perfetta, o dalla recitazione di tutti gli attori, dai più grandi ai caratteristi, che rappresenta ancora oggi un manuale pratico dell’interpretazione cinematografica, ma entrò in contatto con un mondo solitamente relegato nella cronaca nera o nei libri di storia e di criminologia. La mafia. Già solo la parola incute terrore. Evoca sparatorie, stragi, terrore. Nemmeno si sa esattamente da dove sia giunta, questa parola; quale sia l’etimo del demonio, mi verrebbe da dire. L’arabo mahyas, come afferma Gambetta? Il toscano, come ritiene Santi Correnti? Il piemontese, come è scritto in un dizionario siciliano-italiano di fine Ottocento a cura di Mortillaro? O, forse, una delle altre tante lingue, uno dei tanti altri dialetti che gli studiosi hanno ipotizzato? Quale che sia la sua origine, mafia è parola che non può, certo, lasciare indifferenti.

04C4D0C3-D031-4711-8D57-75BC92D77490Ed è esattamente quanto accaduto a chi, nei primi anni Settanta dello scorso secolo, si è trovato a leggere il romanzo di Puzo od a vedere il capolavoro cinematografico di Coppola. Non solo non è rimasto indifferente, entrando nella storia, viaggiando nella fantasia in compagnia di personaggi di carattere, ma ha approcciato da vicino il fenomeno mafia, saggiandone ora il dramma, ora l’aspetto “romantico”, se così si può dire, aiutato da una musica malinconica, languida e commovente.

Romantica è sicuramente la figura di don Vito Corleone, il quale rifiuta categoricamente di entrare nel giro della droga perché “la polverina” miete vittime. Don Vito che balla con la figlia nel giorno del suo matrimonio; che aiuta un giovane pasticcere a rimanere in America e sposare la ragazza dei suoi sogni; che tiene sotto la sua ala protettiva il consigliere Tom Hagen, adottato da bambino; che piange la morte del figlio, Sonny, caduto in un’imboscata per andare a proteggere la sorella. Don Vito che tenta di tenere lontano dagli affari di famiglia il figlio minore, l’eroe di guerra, colui che, nei suoi sogni, dovrà riscattare il nome della famiglia.

La famiglia, ecco. L’altro fulcro attorno al quale ruota l’organizzazione criminale cinematografica.

Ebbene, a quarantacinque anni dall’uscita de Il Padrino, ho incontrato un illustre criminologo per parlare della mafia di Puzo e di Coppola, di quella mafia, forse poco realistica, che, tuttavia, è ancora nel nostro immaginario; è cristallizzata nel frasario cinematografico di chi, non più giovanissimo, come me, ha visto e rivisto quel film ed i successivi: “gli faccio un’offerta che non può rifiutare”, “si va ai materassi”, “lascia la pistola e prendi i cannoli”.

FDA0B7A3-6391-487E-BE88-3BBA2B64EC63Federico Varese (foto) è docente di Criminologia all’università di Oxford, direttore dell’Extra-Legal Governance Institute e Senior Research Fellow del Nuffield College. Ha al suo attivo molti libri sulla mafia, tra i quali, in traduzione italiana, il magnifico Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, edito da Einaudi nel 2011 e la sua più recente fatica, uscita quest’anno sempre con Einaudi, Vita di Mafia. Amore, morte e denaro nel cuore del crimine organizzato, splendido e documentatissimo viaggio nelle mafie di tutto il mondo, con un intero capitolo dedicato alla mafia cinematografica, scritto con lo stile accattivante che sempre distingue l’Autore e che rende i suoi testi criminologici interessanti come romanzi.

8F16A865-7C01-4DA2-AB72-C5C1811D80E2Federico, ci conoscemmo in occasione dell’uscita di un tuo libro, in compagnia di altri illustri giuristi, tra i quali il caro amico e Procuratore Generale di Cassazione Aurelio Galasso. E’ passato più di qualche anno. Molta acqua sotto i ponti, o, meglio, molta mafia sulle tue pagine. Gli scrittori, spesso, sviluppano un personale feeling con gli argomenti che più trattano, quasi un’osmosi che rende quegli argomenti parte della loro stessa esistenza, indagati in ogni aspetto, anche il meno noto. Ecco, a proposito di aspetti meno noti della mafia, esiste un “romanticismo” della criminalità organizzata? Un’immagine positiva, come quella che Il Padrino ha, in qualche modo, evidenziato, rendendo trasparente il crimine per rivelare il dramma intimo della Famiglia?

Raffaella, ricordo benissimo quell’incontro, quando cercavo di studiare la presenza della mafia post-sovietica a Roma. Da allora, ho continuato ad occuparmi di mafie in maniera comparativa, cercando di mettere in luce gli aspetti che queste organizzazioni hanno in comune, anche se nate in tempi e contesti diversi. Uso il concetto di mafia in modo analitico, non in riferimento ad un particolare contesto storico singolo, come la Sicilia. Vengo alla domanda: sicuramente il film di Coppola descrive una mafia “romantica”, di un onore lodevole, che, tuttavia, ha poco a che fare con quella vera. Lo stesso Puzo, in un’intervista, disse che lui non sapeva niente della mafia, non aveva avuto nessun rapporto con la mafia nella sua vita, tranne, forse, l’andare qualche volta a giocare al casino di Las Vegas. Aveva solo letto qualcosa sui giornali. Ha scritto, dunque, un’opera di fantasia, che nasce come romanzo e non pretende d’essere null’altro; una grande saga familiare, la storia di tentativi falliti di ascesa sociale, un complesso rapporto tra padre e figli, una complessa storia d’amore tra una donna americana e un italiano, un romanzo insomma.

67654EE5-B811-426C-8352-A6C41FCEDF02Nel tuo libro Vita di Mafia hai dedicato un intero capitolo alla mafia cinematografica. La figura accattivante del delinquente, che suscita quasi ammirazione; la costruzione di un anti-eroe che, alla fine, diviene eroe egli stesso, non è unica prerogativa de Il Padrino, giusto?

Esatto. La rappresentazione del mafioso “romantico” è iniziata molto prima. La prima rappresentazione risale al 1912, il primo gangster movie americano, The Musketeers of Pig Alley, diretto dal grande regista D.W. Griffith. In quel breve film, ovviamente muto, il gangster salva una giovane donna da uno stupro,  si veste in maniera elegante, combatte contro una gang rivale cattiva, e arriva a suscitare l’ammirazione della comunità, del quartiere, tanto che lo proteggono dalla polizia …

È vero, dunque, che certi personaggi entrano nel cuore, penetrano sotto la pelle dello spettatore, malgrado tutto. Qual è il personaggio de Il Padrino che ha colpito di più Federico Varese?

Sicuramente tutti gli interpreti sono insuperabili. Però, a dover scegliere, direi Fredo, il fratello maggiore, interpretato dal grandissimo John Cazale, un attore purtroppo morto giovanissimo, che ha fatto film come Il Cacciatore, Quel pomeriggio di un giorno da cani, e (mio favorito, sempre di Coppola) La conversazione … Ecco, lui è un attore molto interessante ed interessante è anche il suo personaggio, collaterale ma assolutamente indispensabile per l’ingranaggio del film. Un debole, catturato nel vortice mafioso, dove spazio per i deboli non ce n’è.

A proposito di Fredo. Alla fine viene ucciso dal fratello. Un episodio dei più brutali, che lascia scioccati e quasi stride con l’idea di onore e di famiglia che fino a quel momento permea la storia. Negli affari di mafia vera si verificano di frequente omicidi in seno alla stessa famiglia? Oppure la famiglia ha una coesione che supera i dissapori interni?

La premessa è che le mafie tradizionali non sono famiglie di sangue, sono organizzazioni criminali. Il nome “famiglia” nasce dall’esigenza di generare, all’interno del gruppo, una coesione tale da non riconoscere altro legame al di fuori di quello con i complici. È famiglia solo di nome, quindi. Infatti difficilmente vi entrano consanguinei. Certo, il fatto che le mafie tradizionali tendono a reclutare in una zona circoscritta porta ad ammettere nell’organizzazione anche persone imparentate tra loro. Di norma, però, le famiglie mafiose non vogliono avere parenti stretti tra i loro affiliati. Solo quando c’è maggiore pressione dello Stato, o difficoltà a reclutare, è possibile che familiari, anche stretti, vengano a comporre il nucleo mafioso. Si pensi ad una nota famiglia mafiosa di Catania, dove erano entrati entrambi i fratelli, uno dei quali è rimasto ucciso nella guerra di mafia e l’altro, Antonino Calderone, si è pentito e ha fornito alle autorità una confessione indispensabile per capire le dinamiche mafiose. Comunque, i rapporti di parentela eventualmente presenti all’interno di una cosca contano poco. Il business e l’obbedienza al boss vengono prima. Quindi può ben accadere che un parente ne uccida un altro. Sono spietati, del resto: ammazzano uomini, donne e bambini, con buona pace di film come Il Padrino. Non hanno codici d’onore idonei a limitare i destinatari di atti violenti.

Se, a bordo di una macchina del tempo, potessi tornare al 1969 e, con l’esperienza di oggi, assistere Puzo nella stesura del suo libro, o, nel 1972, assistere Coppola nella regia del film, cosa diresti loro di cambiare?

Come dicevo, Il Padrino è un’opera di fantasia, che ovviamente ha diritto di esistere. Personalmente preferisco libri e film che mostrano la meschinità, la fragilità e la pochezza umana dei mafiosi. Penso alle opere di Martin Scorsese, di Ciprì e Maresco e poi di Maresco da solo (Belluscone – Una storia siciliana è straordinario), Anime Nere di Francesco Munzi, e il film Gomorra di Matteo Garrone. C’è poi l’aspetto del realismo del Padrino. Molti spettatori sono indotti a credere che il film descriva la mafia americana come è veramente. Invece è assolutamente falso, ad esempio,che i padri passino lo scettro di boss ai figli. In nessun caso il figlio è diventato boss (l’unica eccezione, post Il Padrino, è stato il tentativo, fallito, di John Gotti, di far nominare il figlio quale capo della famiglia Gambino). Anzi, come detto, tendono a non ammettere i figli nelle famiglie, visto che la famiglia mafiosa vera non è una famiglia di sangue. Tuttavia un legame realistico tra l’opera di Puzo e di Coppola e la mafia vera c’è, sebbene di segno opposto a quel che si possa credere. Non è il film che ha copiato la realtà, quanto la mafia ad aver fatto propri alcuni elementi letterari, copiando atteggiamenti, abbigliamento, imparando a memoria le battute. La mafia americana ha amato moltissimo Il Padrino.

Nel tuo libro lo sottolinei con grande chiarezza, infatti.

Ne parlo, sì. Attraverso il film, la mafia si è fatta riconoscere come entità a sé rispetto ad altre organizzazioni delinquenziali; inoltre il film ha spiegato i loro metodi, ha risparmiato la fatica, ai mafiosi, di incutere terrore: dopo aver visto il film la gente sa perfettamente cos’è un’offerta che non si può rifiutare e non la rifiuta, come sottolineato, a suo tempo, da Diego Gambetta,  docente di sociologia nella mia stessa università ed esperto di mafia. Non si trascuri, infine, il fascino che la mafia di Puzo e di Coppola ha trasposto su quella vera, donandole un più largo consenso. Lo stesso fenomeno si era riscontrato con il film del 1912 di cui abbiamo parlato poc’anzi, The Musketeers of Pig Alley. In quest’ultimo caso, però, fu prevalentemente il look, l’eleganza, il portamento del protagonista ad essere copiato dai gangster veri.

Ora consentimi una domanda che esula dal cinema e dalla letteratura. Guardando all’evoluzione della criminalità organizzata di stampo mafioso, assistendo alla lenta scomparsa dei grandi capi clan più carismatici, ha ancora senso parlare di mafia?

Sicuramente. Nel libro cito una bellissima e profonda frase di Falcone, il quale definisce la mafia un fenomeno umano. Quindi, come tutti i fenomeni umani, anche le mafie nascono, crescono e muoiono. Sicuramente le mafie possono finire, anche se non sono affatto finite in Italia. Essendo fenomeni sociali (cioè fatti di persone che si associano tra loro), possono essere sconfitti da misure atte sia a disincentivare il comportamento mafioso ed a prevenirlo, sia a reprimere l’azione criminosa. La repressione di polizia è ovviamente fondamentale, ma da sola può far poco: c’è e c’è stata in Italia, ma non ha prodotto l’estinzione del fenomeno mafioso. In buona sostanza le mafie possono morire, ma bisogna farle morire. Nel libro discuto le misure a mio avviso utili in questo senso. La seconda considerazione che si lega alla mafia come fenomeno sociale è la capacità di evolversi, pari a quella dell’essere umano che le dà vita. Si è sempre adattata ai nuovi mercati, almeno quelli che riesce a controllare. E si tratta di un controllo prevalentemente territoriale. La ‘Ndrangheta, ad esempio, è molto forte, economicamente, perché, attraverso il porto di Gioia Tauro, controlla il traffico di droga proveniente dall’America Latina. In pratica, la mafia si adatta alle nuove esigenze, ma sempre attraverso un’azione locale. Poi, certo, oggi i mafiosi usano anche WhatsApp, Facebook, Skype, ma lo fanno come lo facciamo tutti noi. L’attività criminale viene gestita alla vecchia maniera ed in modo assolutamente legato al territorio sotto controllo. Quindi solo riconquistando il territorio possiamo pensare di sconfiggere la mafia.

Grazie, Federico, per questa piacevole chiacchierata in bilico tra il mondo vero e quello tratteggiato dalla fantasia di uno scrittore,  tra la violenza ed il racconto della violenza; grazie soprattutto per i tuoi studi, i tuoi libri, che aiutano non solo lo studioso di criminologia, ma il grande pubblico a capire ed a riconoscere certe realtà. E la conoscenza è sempre la base prima per il discernimento, per la comprensione del Bene e del Male, per la capacità di prendere le distanze dal fenomeno mafioso. Ultimamente molti giovani, anche nati e cresciuti in località controllate dalla mafia, stanno alzando la testa, stanno combattendo affinché il fenomeno mafioso sia emarginato. Certo, non è questione di giorni e nemmeno di mesi, ne siamo tutti consapevoli. La mafia, a quanto s’è capito, è un fenomeno antico in costante evoluzione. Di volta in volta cristallizza un’epoca, vi si inserisce col suo bagaglio di negatività e di tradizione. Poi cambia, come cambia il mondo. Ma, alla fine, può anche morire. Il tuo libro ci insegna a sperare, dunque. E la speranza è una forza superiore. 

di Raffaella Bonsignori

1 risposta

  1. Raffaella Bonsignori

    Ringrazio ancora il prof. Varese per avermi concesso l’intervista, condividendola sulla sua pagina FB e gratificandomi con la sua attenzione ed i suoi complimenti.

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