Il tramonto dei Viceré: la degenerazione della stirpe e il disordine dell’esistenza

«La principessa… Morta d’un colpo… Stamattina, mentre lavavo la carrozza…» racconta il cocchiere di don Salvatore Cerra a un gruppo di servi e famigli. La notizia passa rapidamente di bocca in bocca, movimenta la folla e innesca la macchina del romanzo. Siamo nell’anno di grazia 1855 e la defunta è Teresa Uzeda, principessa di Francalanza e matriarca di una famiglia aristocratica d’origine spagnola. La sua scomparsa è il motore della storia, il grande imprevisto da cui scaturisce una feroce lotta per l’eredità che coinvolgerà figli, cognati e nipoti, portando alla luce il lato più miserabile della loro stirpe.

Il decadimento della stirpe

Siamo in apertura a I Viceré di Federico De Roberto, romanzo del ciclo Uzeda che si colloca cronologicamente tra L’illusione (1891) e L’imperio (postumo, 1929). Un libro con tanti protagonisti e un grande tema centrale: la degenerazione di una genia indagata nella Sicilia tra fine dominazione borbonica e il primo ventennio postunitario. Come spiega l’autore stesso in una lettera all’amico Ferdinando Di Giorgi, il romanzo è «La storia d’una gran famiglia, la quale deve essere composta di quattordici o quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell’altro». E aggiunge: «Il primo titolo era Vecchia razza: ciò ti dimostri l’intenzione ultima, che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale d’una stirpe esausta».

La “vecchia razza” di cui ci parla De Roberto è il prodotto di una serie di unioni tra consanguinei che si tramandano avidità, arroganza e ipocrisia. Si pensi per esempio a Don Blasco, monaco eppure incarnazione di tutto ciò che trasgredisce la regola di San Benedetto. Insomma, una stirpe sempre più corrotta in cui restano saldi solo l’amore per la roba e l’orgoglio di appartenere a una casta. Si parte con la scomparsa di una donna forte in grado di tenere in pugno tutti i membri della sua famiglia nonostante i conflitti interni; si arriva al feto mostruoso partorito da una delle sue figlie: un «pezzo anatomico» che è «il prodotto più fresco della razza dei Viceré». 

Il Risorgimento tradito

Il concetto di razza a cui si rifà De Roberto è quello zoliano per cui la razza è ereditaria e l’uomo ricompone e modifica i suoi aspetti psichici e comportamentali sia in base all’invecchiamento che al cambiamento della realtà. Il legame tra stirpe e realtà storica infatti è fortissimo all’interno del romanzo. La decadenza degli Uzeda richiama una disillusione storica che De Roberto ha sperimentato sulla sua pelle. Anche lui — come molti altri intellettuali — è vittima della delusione data dall’esito del processo risorgimentale.

Come afferma Sergio Campailla nell’introduzione all’edizione Newton Compton del 2010: «De Roberto […] fa corrispondere, in una simmetria strutturale altamente significativa, la nascita del feto dalle viscere di Chiara e l’occasione storica del plebiscito che decreta l’annessione della Sicilia e l’unità d’Italia: fuor di metafora, due creature mostruose in qualche modo gemellari, generate dal potere e dal disordine della storia al di là delle speranze e delle illusioni individuali e collettive». 

Il disordine dell’esistenza

Bisogna tuttavia tenere conto che questa delusione si colloca nel contesto di un pessimismo che ha un fondamento filosofico. Per De Roberto la vita fluisce nel peggiore dei modi. Al contrario di ciò che dicevano i positivisti, secondo lui il progresso non esiste e il tempo fluisce indifferente, riducendo tutto in illusione. E cosa c’è dietro l’illusione? La risposta è il disordine. Lo stesso disordine che travolge la famiglia Uzeda quando la burattinaia Teresa scompare. Un caos che l’autore affronta a colpi di satira, strumento che gli consente di infrangere ogni schermo di ipocrisia e affermare sulla pelle di ogni personaggio il suo giudizio amaro su cos’è l’esistenza. 

Foto di pixel2013 da Pixabay

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