Il ponte da cui nessuno torna indietro

«È come se noi fossimo al passaggio di un ponte. […] Siamo già partite da una sponda e non siamo ancora giunte all’altra. Quello che abbiamo lasciato è dietro le nostre spalle, neppure ci voltiamo per guardarlo, quello che ci attende è una sponda dietro la nebbia. Neppure noi sappiamo cosa scopriremo quando la nebbia si scioglierà. Qualcuna si sporge a guardare il fiume, cade e affoga. Qualcuna, stanca, si siede per terra e sul ponte s’addormenta. Le altre, quale bene, quale male, passano all’altra riva»

Siamo immersi nelle pagine di Nessuno torna indietro — il primo romanzo della scrittrice italo-cubana Alba de Céspedes — e a parlare è Silvia, la più saggia e disincantata delle otto giovani protagoniste.

Il ponte

È il 1934, nella cornice di un Natale malinconico le ragazze del collegio femminile Grimaldi sprofondano nelle proprie riflessioni. In questa atmosfera di sospensione compare per la prima volta l’elemento del ponte, simbolo del passaggio tra adolescenza e età adulta. La metafora ricorre spesso nel romanzo e si concretizza nel collegio, luogo transitorio in cui le ragazze entrano adolescenti e escono donne. La porta del Grimaldi è come un varco accessibile solo dall’interno: chi è in collegio può lasciarlo ma chi lo lascia non può più tornarci.

Xenia viene bocciata alla tesi di laurea ed è la prima delle protagoniste a andarsene. Silvia, Vinca, Anna, Valentina, Augusta e Milly pensano che sia l’unica del gruppo ad aver attraversato il ponte, ma non sanno che tra loro c’è qualcuno che è sulla riva opposta del fiume da molto tempo. 

La diversità di Emanuela

Emanuela Andori si presenta subito come la nuova, la diversa. Il suo essere differente colpisce attira le compagne, e anche Andrea, un giovane studente di filosofia che affermerà: «Quando ti vidi per la prima volta in facoltà […] mi apparisti subito diversa dalle altre. E se pure mi parve un po’ affettato quel tuo libretto di pelle in cui prendevi gli appunti, sentii che in quel gruppo di goffi orsacchiotti tu eri una donna».

Tuttavia, questa diversità nasce da un segreto che inquina la vita di Emanuela e la porta a sentirsi sempre fuori posto. In quel Natale nevoso e malinconico, mentre le compagne parlano di ponti, onestà e strade da prendere, lei si sente una sorta di «spia in campo nemico». Con le amiche finge di essere una comune studentessa di Storia dell’Arte approdata al Grimaldi in attesa che i genitori tornino dall’America. In realtà è la madre di Stefania, una bambina che va a trovare ogni domenica mattina in collegio e con cui ha un rapporto molto controverso. Da una parte la ama e soffre per non aver creato un vero rapporto d’affetto con lei, dall’altra vorrebbe che non fosse mai nata. La vede come il frutto di un imprevisto che l’ha privata troppo presto della sua adolescenza e ha gettato un’ombra scandalosa su ogni prospettiva per il futuro. 

L’imprevisto

L’imprevisto ha il volto di Stefano Mirovich, un aviatore bello e coraggioso con cui Emanuela ha costruito un amore intenso, vissuto sull’onda della passione. Le passeggiate crepuscolari sui Lungarni fiorentini, gli appuntamenti segreti in una traversa di Viale dei Colli, i baci, il progetto di sposarsi… Poi un giorno la casa buia e vuota, le telefonate al comando, le voci esitanti degli ufficiali e infine la notizia sconvolgente: Stefano è morto. Un incidente orribile, l’aereo è precipitato, il cadavere non ha nemmeno più gli occhi. 

Quando Emanuela viene informata della tragedia sa già di essere incinta e da quel momento vive la prospettiva di diventare madre come una condanna: «Le ripugnava il pensiero di avere in lei una creatura viva che accaparrava il suo sangue, la sua vita, che cresceva in lei a suo dispetto, che era padrona della sua esistenza ancora prima di nascere».

L’altra

In un attimo, la sua condizione di ragazza privilegiata si capovolge. Costretta a lasciare Firenze, si ritrova in un collegio romano dove deve fingersi un’altra, una giovane donna che deve ancora attraversare il ponte.

Quando verrà smascherata, le compagne rimaste al Grimaldi si sentiranno profondamente tradite. Soprattutto Augusta, che anche se ha i capelli grigi è bloccata in un’adolescenza perenne fatta di esami ancora da dare e sogni da scrittrice che non si realizzeranno mai: «Pensavi che cambiando lo scenario anche tu saresti tornata quella di prima. Non sai che tutto è possibile nella vita fuorché tornare indietro? Le strade sono tante, ognuno crede di prendere la buona, va, va, e poi a un tratto s’accorge che ha sbagliato. Tutti vorremmo ricominciare. Ma gli atti che ci hanno accompagnato fin lì, sono alle nostre spalle attraverso la strada, a fare argine. E indietro non si può tornare. Nessuno torna indietro. È la più inesorabile forma di eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alle leggi di vita».

La persecuzione della bugia

Attraverso Emanuela, Alba de Céspedes (ventisettenne e madre da dieci anni all’epoca della stesura del libro) ci racconta l’anima divisa di una ragazza che non se la sente di diventare donna, ma che non può più essere nemmeno adolescente. Intrappolata in una specie di limbo, brancola in un labirinto di bugie che nel buio della notte prendono le sembianze di un cadavere mostruoso: «La bugia, quella terribile bugia, bisognerebbe parlare alle ragazze, dire, non sono quella che credete, tutte bugie. […] È qui il morto, m’aspetta, mi salta addosso. Dio, è la bugia, è la bugia». 

L’idea del morto che di notte la insegue per i corridoi bui del collegio non è altro che la proiezione del suo senso di colpa, divorante e incancellabile come quello che faceva salire la febbre a Raskol’nikov in Delitto e Castigo. L’unica soluzione è quella più temuta: dire la verità anche a rischio di perdere tutto, per vivere alla luce del sole sull’altra sponda del fiume.  

Fonte foto: artegante.it/claudio.torcè

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