Il martello della “Femina Agabbadora”: l’eutanasia del passato

martello_femina_agabbadoraIn Sardegna si trova il museo privato “Galluras”, nato dalla passione di due tenaci galluresi, che sono riusciti a conservare perfettamente un’antica abitazione di fine ‘800, inclusi gli oggetti che accompagnavano la vita quotidiana degli abitanti del paese. 

Ogni stanza ha una storia da raccontare e ci fa conoscere dettagliatamente l’organizzazione della vita di un tempo. Analizzando ogni singolo utensile si nota soprattutto che erano banditi gli sprechi e tutti gli oggetti venivano utilizzati e riciclati in maniera accurata e saggia. Insomma le loro abitudini erano ben diverse dalle nostre.

IL MARTELLO DELLA MORTE
Fra le varie stanze, su tutte desta curiosità la camera da letto.
Qui è conservato un singolare oggetto, l’ultimo ad oggi rimasto in tutta la regione, che rende il museo unico in Sardegna.
Sul letto in ferro battuto si trova infatti un sacchetto con dei nodi di velluto, contenente il martello della “Femina Agabbadora”.
Si tratta di un arnese molto pesante in legno stagionato d’olivastro, lungo 42 centimetri e largo 24.
Il manico corto consentiva di impugnarlo facilmente e portare a segno un colpo sicuro e preciso, mirato a finire un malato terminale.

CHI ERANO LE FEMINE AGABBADORE?
Le Femine Agabbadore erano delle donne che venivano chiamate quando in casa c’era in moribondo. Il loro compito era quello di praticare l’eutanasia, colpendolo a morte. Il macabro “mestiere” era visto di buon occhio dagli abitanti, poiché le donne arrecavano dignitoso sollievo ai malati, laddove medico e preghiere avevano fallito miseramente. Erano vestite di nero e indossavano un mantello, simile a quello della raffigurazione simbolica della Morte.

IL RITUALE

Per praticare l’eutanasia, la Femina Agabbadora seguiva un preciso rituale magico.
Prima di ricorrere alle sue ultime “cure”, sotto il cuscino del malato veniva posto un piccolo giogo (per tre giorni e tre notti) con il quale si spingeva il moribondo a “tornare alla vita”.
Se il malato continuava a soffrire, si procedeva con una confessione in famiglia, “l’Ammentu”.
Durante la confessione gli si rammentavano all’orecchio i propri peccati per pentirsene prima dell’ultimo respiro.
Qualche volta accadeva che il malcapitato si risvegliasse.
In altri casi si avvolgeva il moribondo in un panno di acqua gelata all’interno di una botte, nel bizzarro tentativo di placare il bollore della febbre.
Ovviamente questo rimedio spesso e volentieri provocava una broncopolmonite fulminante!
Se nessun tentativo dava i risultati sperati, ci si appellava a malincuore all’Agabbadora, che appoggiava lo strumento sul davanzale del malato, ma entrava dalla porta principale annunciandosi con la frase “che Dio sia qui”.
La donna veniva accompagnata dai familiari nella camera del malato e dopo aver fatto il segno della croce li congedava chiudendosi all’interno. Una volta compiuto “suo dovere” richiamava tutti i parenti per compiangere con loro il defunto.

DURATA DELLA PRATICA
Questa singolare pratica rimase in vigore fino al 1952. Il verbale dei carabinieri, in riferimento all’ultima eutanasia, giustifica il trattamento con il fatto che “i familiari ne hanno dato il consenso”.

Museo Galluras

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