Il gruppo della settimana: Q come Queen

Queen_band_backgroundGOD SAVE THE QUEEN! Dal 1973, per quasi 20 anni, la band dei Queen ha rubato la scena della musica leggera britannica e di tutto il mondo.

Pop, glam, chitarre e sdolcinatezze, sono gli ingredienti di una delle band più popolari degli ultimi 40 anni, rimanendo praticamente gli stessi per tutta la carriera del gruppo che ha nella voce e nella presenza scenica di Freddie Mercury il suo riconoscibile marchio di fabbrica.

E già sotto questa <<regola>> nasce anche il loro primo lavoro, intitolato semplicemente “Queen”, del 1973. Scopriamo, fin da subito, ottimi musicisti. Oltre al già citato Mercury, anche il chitarrista Brian May ed il batterista Roger Taylor figurano tra gli autori del 2° album (poco spazio all’originalità) “Queen II” del 1974, dove citerei “Seven seas of rhye” come migliore traccia, giocata sul botta e risposta dei cori e delle chitarre di May.

E’ una caratteristica ricorrente del gruppo, quella di produrre album dal successo planetario nei quali figuravano discrete canzoni con l’eccezione di 2 o 3 pezzi al massimo che rasentavano la perfezione e, a volte, incarnavano in pieno il ruolo di capolavori. Il ’74 è anche l’anno di “Sheer heart attack”, un disco piacevolmente vario tra le asperità di “Stone cold crazy” (canzone che sarà poi interpretata dai Metallica), e i deliziosi coretti di “Killer queen”.

Ma c’è anche la virtuosa “Now I’m here”. “A night at the opera” è, secondo me, uno dei lavori più riusciti del gruppo. Un album davvero bello, poco commerciale, nel quale la loro creatività è talmente traboccante che non può non conquistare. E poi c’è “Bohemian rhapsody” (quando parlavo prima di capolavori…). Si tratta di un’opera nell’opera.

Un brano con spunti talmente ricchi e diversi che qualsiasi altra band ci avrebbe ricamato sopra, ricavato e realizzato, un album intero. In chiusura poi troviamo l’arrangiamento dell’inno nazionale britannico (“God save the queen”) con il quale, durante la loro carriera, chiuderanno tutti i loro concerti. “A day at the races” del ’76 si apre con la chitarra di Brian May (“Tie your mother down”), ma I pezzi migliori sono targati Mercury.

I cori e le melodie di “Somebody to love” ed il richiamo agli anni ’60 con “Good old fashioned lover boy”, sono forse tra le cose migliori di tutta la loro carriera. E per ribadire il concetto dei 2 brani <<bomba>> per album e poi normale amministrazione, prestiamo attenzione a “News of the world” del ’77. L’uno – due iniziale è composto da “We will rock you” e “We are the champions”.

Come poter far emergere altro? Questo uno – due colloca, di diritto, quest’album tra i classici della storia del gruppo. Analizzando le altre canzoni, però, si denota una prima carenza di idee rispetto agli altri <<riempitivi>> del passato. E la ricetta non cambia. Passa un anno (’78), esce un n uovo album (“Jazz”) con 3 perle dalle memorabili melodie (“Fat bottomed girl”, “Bicycle race”, “Don’t stop me now”) ed un eccessivo numero di riempipista.

Dopo un album live “Queen live killers” del ’79, il 1980 ci conferma che le idee iniziano a scarseggiare. Esce “The game” ed è, forse, il primo vero passo falso della band, dove la sola “Another one bites the dust” (il cui giro di basso ricorda come importanza all’interno del brano “One of these days” dei Pink Floyd) merita un posto nella galleria dei loro classici.

Potrei poi salvare la ballata “Crazy little thing called love” e [forse] la melodia quasi da ninna nanna di “Save me”! Nello stesso anno esce al cinema “Flash Gordon”, la cui colonna sonora è interamente firmata dai Queen e nella quale, a parte l’inconfondibile tema conduttore, c’è ben poco da ricordare. Anche “Hot space” dell’82, inutile girarci intorno, è un album noioso, nel quale la sola gemma è rappresentata da “Under pressure”. E’ evidente che il meglio, i Queen, lo abbiano già dato. Ma, come quasi sempre accade, i lavori che seguiranno verranno comunque premiati dai milioni di fedelissimi, anche perché poi, come già detto, Mercury & Co., le loro gemme, riescono sempre a tirarle fuori; ad ogni LP. Nell’84 i nostri protagonisti rialzano parzialmente la testa. “The works” è un lavoro qualitativamente migliore degli ultimi realizzati.

Le piacevoli “Radio GA-GA”, e “I want to break free” su tutte, ma anche “Is this the world we created?”, brano dal quesito a sfondo sociale. Un altro album legato ad un film (stavolta si tratta di “Highlander” dell’86) è “A kind of magic”. Un disco sicuramente meno rock che in passato, dove i Queen fanno valere le loro capacità indiscusse di creare melodie da ricordare. In questo caso i tormentoni (assolutamente in positivo) sono “Who wants to live forever” e “Princes of the universe”. Ancora un doppio album dal vivo (“Live magic”) nello stesso anno e poi, dopo 3 anni di silenzio, esce “The miracle”.

Il successo è enorme; la sostanza poca. “I want it all” e la stessa “The miracle” sono le cose migliori. Per il resto, possiamo parlare di una piccola delusione. Sembra, in poche parole, un altro album di una band che sembra aver esaurito le energie e le idee migliori. Ma, evidentemente, il problema è anche un altro. Freddie Mercury sta male e la band non può non risentirne.

“Innuendo” (siamo nel 1991) è l’ultimo album inciso prima della sua morte avvenuta nel novembre dello stesso anno, dove la solenne “The show must go on”, posta in chiusura di scaletta, suona come una triste premonizione. La sua ultima apparizione in pubblico fu nel video della canzone “These are the days of our lives”, in cui Mercury appare dimagrito ed irriconoscibile. Freddie Mercury muore a soli 45 anni di aids.

Il mito Queen certamente non è finito. Il gruppo, per contro, dopo timidi tentativi di Brian May di poter offrire ancora qualcosa, ha deposto le armi. Ancora una volta, allora, GOD SAVE THE QUEEN!

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