“Il giovane favoloso” Elio

eliogermanod123cd928db148ba308c66737df848df_XLCominciamo con il dire che “Il giovane favoloso” è un gran bel film. Si potrebbe asserire “lento” se non fosse, nel suo genere, dovuto esserlo necessariamente.

Un film che ha il pregio e quindi il merito, di far “vivere” un meraviglioso esponente della letteratura Italiana (Giacomo Leopardi) esattamente come lo si ricordava e lo si è studiato.

Normale che sia così, si potrebbe pensare, ma il merito sta nel fatto di essere riusciti a dipingere questo patrimonio della letteratura Italiana dell’Ottocento, in maniera assolutamente fedele ad ogni immaginazione e convinzione fatta nostra, nei nostri studi su di lui.

Elio Germano è Giacomo Leopardi. La sua interpretazione è magistrale. Elio è “favoloso” al punto che arriva persino ad accartocciarsi su se stesso per entrare prepotentemente nella parte. Ed è magico anche per la sensibilità che dimostra.

Al principio della sua vita Giacomo Leopardi era felice. Nell’infanzia gioia e “allegrezza pazza” riempivano le sue giornate. Amato ed ammirato dai fratelli. Il padre Monaldo, apparentemente severo ed austero, funge per Giacomo (in realtà) da padre e madre.

Se è vero che per certi versi appariva in qualche maniera paradossale, era anche vero che una tenerezza grandiosa e assorbente lo avvolgeva. La madre, per contro, non darà mai a Giacomo quell’affetto e quella tenerezza che una madre, per sua natura dovrebbe riservare ad un figlio. Mai un bacio, mai una carezza, mai un sorriso.

L’immensa biblioteca era il centro della vita familiare e Giacomo proiettava in essa l’ordine e l’armonia dell’universo. Lì, per lui, ogni cosa aveva un senso. Poi l’infelicità piombò su di lui.

Ma cosa accadde a Leopardi nel cuore della sua giovinezza?

Tanto per cominciare una serie di malattie si impadronisce pian piano del suo organismo. Il suo centro del mondo, la già citata biblioteca in cui passava giornate (e spesso nottate) intere, diventa allo stesso tempo croce e delizia; passione e prigione. E’ il momento dello “studio matto e disperatissimo”.

L’amore platonico, in realtà mai dichiarato e quindi mai corrisposto, per Silvia (anche se in realtà sembrerebbe trattarsi di Teresa, la figlia del cocchiere di casa Leopardi), lo porta dapprima a dedicarle la famosa “A Silvia”, poi a decretarne, con l’improvvisa e prematura morte della giovane, la consacrazione della sua negatività nei riguardi di tutto ciò che vive e che lo circonda.

Siamo al centro del “pessimismo cosmico”. Giacomo non sente più né la natura, né la bellezza; sentimento ed entusiasmo si dileguano e l’infelicità umana è irrimediabile. Non gli resta che “sopportare”. Si rifugia negli scritti, nelle lettere, nell’arte ed in pochi anni, diventa un maestro.

Ma la sua mente e la sua natura sono ormai pervase ed innamorate di contraddizioni e sdoppiamenti. Cerca la felicità, ma sa che è un’impresa disperata. Fugge da Recanati e la insegue a Pisa, Bologna, Firenze, Napoli. Trova la vera amicizia con Ranieri che non lo abbandonerà più.

Ma vive tutta la sua restante vita celando dolori, angosce, desolazioni, passioni, solitudine, nel dono, comunque, di essere un genio immenso. Il suo stato di salute , sempre più precario, lo condanna sempre più. Gli occhi sempre più dolenti (fino a non vedere praticamente più) e la sua gobba sempre più pressante sulla schiena, lo marcano irrimediabilmente.

Possiamo concludere dicendo che Leopardi non apparteneva ad alcuna epoca e questa “estraneità” gli permise di comprendere il 19° ed il 20° secolo. Nei suoi scritti troviamo “lampi” di Nietzsche, Flaubert, Kafka…

Autori del tardo Ottocento e del primo Novecento da lui mai conosciuti, ma che la loro votazione alla disperazione richiama l’immensa opera di Giacomo Leopardi: il giovane favoloso.

di Riccardo Fiori

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