“Il Contagio” una storia di borgata di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini

il contagioIl Contagio”, opera seconda di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, è tratto da una piece teatrale ispirata all’omonimo romanzo di Walter Siti.

Il romanzo racconta una serie di storie che si intersecano avendo come cornice, almeno iniziale, un comprensorio di case popolari nella zona Laurentino 38 di Roma. Il film sfronda abbastanza l’intrico del romanzo, e si concentra sulla vicenda di Marcello, interpretato da Vinicio Marchioni, e di sua moglie, Anna Foglietta, e dei loro più stretti amici e conoscenti.

Nel Film Marcello Vinicio Marchioni (foto a sinistra) è disoccupato, va spesso in palestra a pomparsi e, di nascosto dalla moglie, frequenta uno strano professore, Vincenzo Salemme, con cui intrattiene una relazione a pagamento fatta di complicità, sesso e cocaina. Fa insomma il gigolò maschile di periferia.

Pubblicizzata come vicenda ispirata alla lontana ai fatti di Mafia Capitale, il film è diretto con sicuro mestiere dal duo di registi Botrugno e Coluccini, che al loro primo film avevano azzeccato un’opera all’epoca innovativa e coraggiosa come “Et in terra pax” (2010). Un’opera realizzata al risparmio e che per prima, dopo molti anni, aveva rimesso la periferia, un po’ pasoliniana un po’ iperrealista, al centro della narrazione del cinema italiano di oggi.

All’epoca innovativa, dato che da quel momento molti autori avevano ripreso a battere quei percorsi a lungo dimenticati da un cinema italiano divenuto nel tempo un po’ ombelicale, borghese e asettico. Fino al capolavoro di Claudio Caligari dello scorso anno “Non essere cattivo”. La ripresa di questi temi comincia oggi ad essere leggermente abusata, dai melò rustici di “Cuori puri” alle variazioni dark e poliziottesche sul tema come “Suburra”.

Da sinistra, Marchioni, Salemme e Foglietta

Da sinistra, Marchioni, Salemme e Foglietta

“Il Contagio” tiene abbastanza sul ritmo, ma ogni tanto c’è qualche segnale di già visto. La Roma di periferia, non più quella del Pantheon o della fontana di Trevi, è ridiventata un topos del cinema, tanto che sorge il dubbio su quanto uno spettatore, poniamo, brianzolo possa appassionarsi ad una descrizione così regionalistica e di fatto cupa e ombrosa della Capitale.

Lo stesso  Pier Paolo Pasolini, il riconosciuto cantore delle borgate romane degli anni ’60, dopo l’iniziale periodo da lui stesso definito “nazional-popolare”, aveva cercato di approfondire il suo discorso, andando a ricercare motivi, cause, rimandi e assonanze con la borgata, più in profondità, ad esempio nel mito edipico-freudiano, nel Terzo Mondo, nella Colchide di Medea e degli Argonauti.

Aveva cercato insomma la borgata in altri luoghi fisici e psicologici, rendendo più articolato il suo discorso, e di conseguenza più variegata l’offerta e più ricco il carnet. Questo insistere invece sull’universo concentrazionario della Roma di periferia potrebbe ad alcuni risultare fotocopiato, fatto in serie, con le stesse battute convenzionali, dall’utilizzo di un dialetto stereotipato, ai medesimi refrain ripetuti in varie salse.

Comunque il film riesce a mantenere alta l’attenzione, sia come andamento narrativo che come spaccato sociologico freddo e analitico di un ambiente.

il-contagio-1-700x432Walter Siti, che nel romanzo si tratteggia nelle vesti del professore amante a pagamento di Marcello, dà vita letteraria a un personaggio che in un romanzo pasoliniano come “Ragazzi di vita” è solo extradiegetico, fuori campo, qui invece agisce in carne e ossa e fa da contrappunto alle vicende dei protagonisti, anche e soprattutto con i suoi monologhi in voce-off, direttamente presi dal testo, dai toni a tratti dannunziani a tratti crepuscolari.

Dall’avvicendarsi dei manierismi proletari dei personaggi, che in realtà non aspirano ad altro che ad una ascesa sociale piccolo-borghese, traspare un universo che perde i suoi connotati originari e diventa lentamente qualcosa d’altro. Emerge la nostalgia, anche un po’ paradossale, per un piccolo mondo antico in cui si passa dalle orge alla cocaina col professore, alle partitelle di pallone nei campi polverosi nei pressi del condominio, alle discussioni ruvide e accese, ma sempre cariche di sentimentalismo, con la moglie.

Un mondo in cui la moglie e il professore possono anche sfuggevolmente incontrarsi, scambiarsi qualche punzecchiatura, ma di fondo tollerarsi, nel crepuscolarismo di fondo che avvolge tutti. Il Contagio parla appunto del contaminarsi di questo piccolo mondo antico, che ha le sue regole e le sue leggi pur nell’amoralità, col mondo neocapitalista, dello sviluppo vertiginoso e dei soldi facili. E’ un discorso che ha la sua logica e la sua storicità, ma sarebbe risultato più comprensibile al pubblico se la figura del professore fosse stata più presente e approfondita. Ma così’ facendo si sarebbe rischiato un gioco, e un’esplorazione, che il libro ha il coraggio di rischiare, il film molto meno. Quindi il discorso sulla purezza animalesca della borgata, che in se è molto sottile, contrapposto alla degenerazione della modernità rischia di non essere molto esplicito, il pubblico rischia di non vedere la differenza e di scorgere degrado ovunque, sia nella borgata che nelle scene successive ambientate in una Milano fredda, livida e funky.

Questa storia di due amici che prendono strade diverse, l’uno di corruzione e abbandono del nucleo originario (seppur con sensi di colpa), l’altro di fedeltà assoluta a se stesso fino al martirio, rispecchia abbastanza il traliccio della vicenda alla base del film di Claudio Caligari, che a sua volta aveva tratto ispirazione dal film “Morte di un amico” di Franco Rossi del 1959.

il-contagio-fogliettaCi si augura che il motivo, in sé sempre interessante e attuale, della vita di borgata, sia presto da spunto per opere ancora più approfondite, evolute, e che non abbiano come solito filo conduttore un anticapitalismo un po’ manierato, che ormai il pubblico sembra avere metabolizzato e digerito.

Vincenzo Salemme è davvero la scelta più azzeccata del cast, riesce a dare leggerezza, brio e simpatia a un personaggio, quello del professore (alter-ego dello stesso Walter Siti) che poteva seriamente rischiare di risultare stonato, fuori luogo e indigesto, almeno in altre mani di attore.

Vinicio Marchioni è molto bravo, convincente e molto misurato anche nelle scene più complesse. Maurizio Tesei è tecnicamente davvero abile, ma a volte fa fatica a trasmettere emozioni e ad empatizzare col pubbllico. Anna Foglietta (foto sopra) passa con troppa disinvoltura da ruoli farseschi a ruoli drammatici per essere davvero credibile.

di Gianfranco Tomei

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