Idryss. Storie migranti

“Ogni mattina in Africa, come sorge il sole, non importa che tu sia leone o gazzella, l’importante è che cominci a correre” (William Shakespeare).

Il leone e la gazzella

Idryss ha 21 anni; non indossa un cappello, né cerca di nascondere quell’orecchio che non ha più. Toglie gli auricolari ed inizia a raccontarmi la sua storia.

«Sono nato in Sierra Leone il 10 dicembre 1997. Mio papà era un insegnante, mia mamma un’infermiera. Ho una sorella più piccola, Fatmata, ed una nipote, che amo così tanto, ma che non ho ancora avuto il piacere di abbracciare. Il 15 luglio 2016 la mia vita è stata stravolta: i miei genitori sono morti in un incidente stradale ed io sono rimasto solo, ad occuparmi di Fatmata. Poco dopo i funerali uno dei miei zii è venuto a farci visita e ha minacciato di sbatterci fuori di casa: egli sosteneva che mio padre fosse stato adottato, pertanto io non potevo vantare alcun diritto sulla proprietà nella quale ero cresciuto».

Partire

La voce di Idryss si rompe improvvisamente, per perdersi nei suoi occhi, ora lucidi. I suoi ricordi riaffiorano come mostri quando inizia a raccontarmi di quel giorno in cui degli sconosciuti entrarono in casa loro; dopo aver picchiato ed immobilizzato lui, abusano di Fatmata, appena quindicenne.

Una cara amica di famiglia, Malika, decide allora di ospitarli in casa propria; Idryss inizia a lavorare. L’idea di allontanarsi dal proprio paese arriva quando, rientrando a casa a piedi da lavoro, viene investito dal cugino che rivendicava l’abitazione. Con il cuore gonfio e attaccato alla promessa che Malika si sarebbe presa cura di Fatmata, il 25 settembre 2016 Idryss lascia il Sierra Leone alla volta del Mali.

“E senza grandi disturbi, qualcuno sparirà”

Nei chilometri percorsi per attraversare confini, ad accompagnarlo l’ombra della paura, la speranza di trovare un lavoro per essere libero e una telefonata della sorella con cui scopre che diventerà presto zio di una bimba concepita con la violenza.

Dopo tre giorni di autobus, Idryss arriva in Mali, trascorre circa otto notti in un grande parcheggio, poi di nuovo in cammino verso l’Algeria, in compagnia di un ragazzo appena conosciuto, come lui vagabondo. I volti con cui si familiarizza durante i viaggi sono destinati a scomparire troppo presto; questa volta in cerca di speranza sono circa 120, tutti stipati in un cassone il cui posto in piedi costa pressappoco 200 dollari a persona. Cinque lunghi giorni intervallati da scorribande che assaltano i mezzi lungo la strada, «picchiano, derubano e se ne vanno, solo allora si riparte»; infine  il deserto, dove in sole 24 ore si soffre la sete di giorno ed il freddo di notte.

In Algeria Idryss riesce a trovare un lavoro e vi resta per circa sei mesi. Dopo esser stato operato ad un ginocchio nel tentativo di sfuggire ad una banda che aveva tentato di derubarlo, il 22 luglio 2017, decide di spostarsi in Tunisia.

Nelle carceri libiche

A Debdeb, città a confine con Tunisia, Algeria e Libia, un uomo a cui aveva dato dei soldi per il viaggio lo accompagna in Libia e lo consegna a dei militari che dovrebbero successivamente condurlo a destinazione. Idryss viene invece preso in ostaggio, rinchiuso in un capannone, picchiato ed informato che per essere liberato la sua famiglia deve pagare €300. Allora tenta la fuga, ma quando sta per scavalcare la recinzione viene fermato e con un morso gli viene letteralmente strappato un orecchio; resterà in balia dei carcerieri per i due mesi successivi.

«Passare della plastica arroventata sulla schiena dei prigionieri è una delle torture a cui ricordo di aver assistito più spesso», mi spiega freddamente. É il 6 ottobre 2017 quando degli uomini armati irrompono nel capannone e liberano tutti i prigionieri dopo aver avuto la meglio sui carcerieri.

“Onda che canta, onda che geme”

«Io avevo paura, tanta paura di muovermi ancora, soprattutto di muovermi verso l’Italia. Sapevo di gente che moriva in mare».

Rimane in silenzio, come a ripercorrere quel brivido. È un caro amico del Niger a convincerlo di intraprendere il viaggio verso l’Italia. «Alla fine decisi di partire. Forse quei €200 mi hanno valso una seconda vita». Idryss trascorre l’ultimo dell’anno in mare: il viaggio verso l’Italia inizia il 31 dicembre, in piena notte, con il mare agitato e 90 persone a bordo.

«Il 1° gennaio 2018 una nave ci ha recuperati. Ero salvo. Pur non avendo più nulla per cui essere felice, ero felice. Ero felice perché ero salvo». Il 3 gennaio Idryss sbarca al porto di Catania.

Uno vale uno. Una vita

«Durante i miei primi giorni al centro di accoglienza, qui a Siracusa, evitavo di guardarmi allo specchio anche quando ero solo; mi vergognavo terribilmente del mio aspetto. Trascorrevo la maggior parte del mio tempo in stanza, non volevo interagire, tantomeno partecipare alle attività ricreative. E piangevo, passavo i miei giorni a piangere, pensando ai miei genitori, a mia sorella, a mia nipote, che ormai sono tutto per me. Indossavo sempre un cappello, questo era l’unico modo per uscire dalla mia stanza. Un giorno il mio miglior amico, forse stanco e dispiaciuto di vedermi così, me lo sfilò dal capo e lo lanciò. Mi arrabbiai tanto da non parlargli per giorni e tornai a chiudermi in stanza, con le mie paure, ma dopo una settimana uscii. Da allora non indosso più un cappello per nascondere il mio orecchio».

Cinque giorni fa Idryss ha ottenuto un permesso di soggiorno di due anni per casi speciali. Sta cercando un lavoro e spera un giorno di poter studiare per diventare medico, tornare in Africa e guarire la sua gente.

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