I difetti della Legge di Stabilità, la nuova bastonata al risparmio

salvadanaio-risparmio-simbolo-che-rappresenta-il-concetto-di-debito-e-problemi-finanziari-coSulle cosiddette “rendite finanziarie”, il Consiglio dei Ministri che ha varato la legge di stabilità ha finito apparentemente per sposare a metà entrambe le ipotesi che fino a ieri erano alternative. Il bivio iniziale era tra la linea sostenuta dal Pd sull’aumento della tassazione, oppure se i 900 milioni circa aggiuntivi da reperire per questa via si sarebbero ottenuti con la diminuzione di sgravi fiscali attualmente previsti con detrazioni Irpef al 19%, delle spese sostenute dai contribuenti a fini sanitari e d’istruzione, come preferiva il Tesoro.

Diciamo subito che si tratta puramente di reperire cassa, non di perseguire finalità economicamente virtuose o di maggior equità. E che ciò smentisce platealmente la dichiarazione del premier Letta, “non più tasse ma solo sgravi”. L’elenco degli aggravi non si riduce infatti a questo capitolo: c’è l’introduzione a fini Irpef della tassazione sulle case sfitte, aumenti d entrata da rivalutazione cespiti imprese, da nuovo regime ammortamento perdite bancarie, dalla fantasiosa trovata della rivalutazione delle quote di Bankitalia detenute dalle banche italiane, dalle nuove misure di regolarizzazione dei patrimoni detenuti all’estero…

Tutto ciò in una legge di stabilità che ha almeno tre difetti di fondo. Primo: delude in maniera totale ogni attesa di svolta, imperniata su energici tagli di spesa a copertura di meno imposte su lavoro e impresa, visto che senza tagli l’IRAP verrà solo limata in un triennio con una modesta mancia in più detrazioni al lavoro dipendente. Secondo: torna indietro di anni, di fatto alle finanziarie della prima Repubblica, lasciando aperte al Parlamento e alla trattativa tra partiti opzioni decisive su ogni essenziale capitolo. Terzo: non contiene alcuna indicazione su come dal 2015 inizieremo ad abbattere il debito pubblico nelle poporzioni assai rilevanti imposte dal fiscal compact.

Ma torniamo alla tassazione sul risparmio. Letta a metà serata di ieri ha annunciato che l’aumento di tassazione ci sarà, anche se diverso da come ce lo si aspettava, e in più per arrivare a un miliardo e 400 milioni di maggior gettito si aggiungeranno anche i tagli alle detrazioni IRPEF al 19%. Tra le due alternative iniziali, era sicuramente l’ipotesi peggiore l’aumento ipotizzato al 22% dell’aliquota 2 anni fa stabilita al 20% per le rendite finanziarie insieme alla maggiorazione contestuale dell’imposta di bollo sui conti correnti. E’ rimasto solo un aumento del bollo maggiore del previsto – visto che solo da questo ci si aspetta 900 milioni di maggiori entrate – ed è comunque un errore. Chiariamo intanto che cosa s’intende, per rendite finanziarie: i proventi generati alla sottoscrizione, alla chiusura dell’anno di imposta attraverso l’incasso di interessi o dividendi, o al momento del realizzo da parte sia delle persone fisiche che giuridiche. Quindi azioni o  titoli di Stato, interessi sui depositi di conto corrente, obbligazioni, mutui, impieghi pronti contro termine e anche semplici impieghi di capitali diversi però dall’acquisto di partecipazioni al capitale di rischio di imprese. Due anni fa l’intervento che venne adottato in questa materia aveva sempre finalità di cassa, ma aveva anche su una giustificazione equitativa. In precedenza infatti sugli interessi maturati da obbligazioni emesse da privati di durata inferiore a 18 mesi si pagava un’aliquota del 27% e una del 12,5% se il bond era di durata maggiore. In teoria era per scoraggiare investimenti a breve e speculativi, in realtà finiva per esercitare effetti distorcenti sul finanziamento a breve delle imprese, consegnandole solo alle banche.

Per questo si decise di unificare l’aliquota al 20%, lasciando la condizione di favore dell’aliquota più bassa al 12,5% solo per i titoli di Stato e di emittenti pubblici di qualunque tipo (come Poste e risparmio postale), italiani ed esteri riconosciuti. Lo Stato fa sempre un favore a se stesso, con le tasse. Ai fini dell’afflusso di maggior investimenti alle imprese sarebbe stato utile riservare l’aliquota agevolata non solo allo Stato, ma anche per esempio ai fondi comuni di investimento mobiliari e immobiliari, ma la politica se ne guardò bene, applicando a quegli strumenti l’aliquota generale del 20%. Idem dicasi per i fondi pensione complementari. La cosa positiva era però abbassare dal 27% al 20% l’aliquota sui depositi di conto corrente. Sempre per far cassa, mentre lo Stato levava peso dalla tassazione sui conti correnti con una mano, dall’altra faceva il contrario, introducendo una non troppo mini patrimoniale sul risparmio con l’imposta di bollo, dal primo gennaio 2012 di 34 euro l’anno per i conti delle persone fisiche e  di 100 per quelle giuridiche (con soglia di esenzione minima, 5mila euro). A questa patrimoniale sul risparmio lo Stato ne ha aggiunta un’altra, sempre di bollo, sui prodotti finanziari posseduti. E’ questa a salire ulteriormente molto, con la legge di stabilità. E quest’anno è anche arrivata la Tobin tax all’italiana, sulle transazioni finanziarie, adottata mentre l’Europa frena e dunque ulteriormente scoraggiando agli investimenti su borsa italiana. Gli effetti cumulati della sete di entrate statale si sono puntualmente visti.  Nel 2012 il gettito da “rendite finanziarie” è salito del 46,8% aumentando  di 3,5 miliardi, e analogamente l’imposta di bollo ha registrato un incremento dell’11% con 622 milioni in più, dovuto proprio alla patrimoniale su conti correnti, strumenti di pagamento, titoli e prodotti finanziari. Ora l’aumento di aliquota al 22% è stato evitato, ma non un forte aumento del bollo. Lasciando solo allo Stato il vantaggio fiscale sui suoi titoli, punendo una Borsa che resta la più depressa in tutto l’Ocse con un rapporto tra prezzo per azione e valore di libro inferiore all’unità per la stragrande maggioranza delle quotate, e picchiando in testa a un risparmio che andebbe convogliato a imprese e lavoro invece che a Stato e banche.

Non si dica che è più giusto tassare il capitale del lavoro, perché su questo sono d’accordo, e non mancano Paesi europei con aliquote più elevate del 20% sulle rendite finanziarie come in Germania (l’aliquota media OCSE è però del 16%). Ma nel caso tedesco la pressione fiscale sul PIL è inferiore alla nostra di 4 punti, ed è molto inferiore della nostra su lavoro e impresa. Da noi lo Stato prende dove può ogni qualvolta gli serve, ma a lavoro e impresa restituisce briciole. Come ancora una volta in questa legge di stabilità, purtroppo.

di Oscar Giannino

fonte: leoniblog.it

foto: it.123rf.com

1 risposta

  1. aldo rosolia

    Si continua a dare per sicuri aumenti della tassazione di redditi – definiti erroneamente “rendite finanziarie” – presentati ai cittadini, non evasori, in modo che essi credano che il Governo – appoggiato da Sindacalisti che sembrano lottare per ottenere equità – sta tentando una meritoria opera di giustizia sociale, sostenendo di sottrarre ricchezza, per quanto possibile, a persone con ingenti patrimoni in Banche o in titoli, e che provocano gravi disparità economiche e sociali nel Paese, che si dibatte nella crisi, anche (dicono!) per colpe di costoro o di pensionati di vecchia data.
    Tale impostazione contiene i tipici elementi dell’ambiguità della politica che non riesce a trovare soluzioni stabili ai tanti problemi italiani, dovuti a: – corruzione; – lavoro nero, agevolato paradossalmente dal funzionamento della Cassa integrazione, che aiuta chi è in difficoltà lavorative, ma senza un serio controllo su imprese scorrette e relativi dipendenti, che spesso restano al loro posto, pur risultandone ufficialmente esclusi, in tutto o in parte; – elevate evasioni previdenziali e fiscali, che devastano l’economia per: 1) minori introiti da contributi e imposte, che si scaricano interamente, anche nel fisco locale, su chi paga il dovuto; 2) ingiuste e molteplici agevolazioni elargite non tanto a chi ha redditi realmente minimi, ma anche a grandi e medi evasori non individuati che appaiono dotati di bassi redditi; 3) effetto negativo sul rapporto deficit/PIL, che risulta più elevato, per il maggiore deficit, provocato da minori entrate fiscali dovute all’evasione, e per il minore PIL calcolato. L’impostazione accennata include anche le carenze culturali di Sindacati che cercano di dimostrare, a lavoratori e a disoccupati, la loro capacità di “stanare” quelli che, per essere “redditieri”, pagano imposte più basse di quelle di coloro che lavorano o producono.
    Proviamo a vedere le cose da un’altra prospettiva, rilevando subito un errore concettuale nel definire il compenso che si paga per l’uso di una somma – elevata o no – accumulata nel tempo, con il termine “rendita” che, secondo il pensiero economico prevalente, deriva, in sintesi, da guadagni ottenuti avvalendosi di posizioni dominanti e senza impegno o sforzo, restando diverso dal termine “interesse” che è il prezzo per il prestito di denaro accantonato nel tempo, sottraendolo all’immediato consumo personale o alla distribuzione a soci o imprenditori singoli. Tale accantonamento è quel “risparmio” che costituisce la fonte necessaria per l’investimento, senza il quale l’economia, sia privata sia pubblica, non decolla né si sostiene.
    In seconda fase facciamo qualche semplice calcolo, premettendo che ogni imposta che colpisce il Patrimonio (P), non può che essere pagata con il reddito (interesse) producibile cedendo l’uso dello stesso patrimonio, per evitare alla lunga la sua scomparsa. Oggi si paga lo 0,0015 (T) come imposta sui patrimoni, rappresentati da quasi tutti gli strumenti della finanza, e il 20% (t) sul reddito che producono (I). Poniamo che il reddito (l’interesse) medio (i) per capitali sino a € 500.000 sia il 3%, cioè € 15.000. Le imposte sono 3.000 (20% di 15.000) + 750 (0,0015 di 500.000) = (Ir) 3.750 pari al 25% circa, e non più al 20%, del reddito lordo. Se, come sembra, T divenisse 0,002 si avrebbe (Ir) = 3.000 + 1.000 = 4.000 pari al 26,66%. Se si considera poi che il titolare di un P limitato oggi non consegue agevolmente un (i) alto, ( Ir) cresce (ad es. P = 40.000; (i) = 1,5%; t =20%, T= 0,0015; I = 600; (Ir) = 600*0,20 + 40.000*0,0015 = 180 pari al 30% del reddito. Con T = 0,002, (Ir) diviene in questo caso 120 + 80 = 200 pari al 33% dell’interesse lordo. In modo più formale si può affermare che al diminuire di P e di (i) e al crescere di (t) e di (T), cresce (Ir) sino al 40%. Infatti se P = 40.000; (i) = 1% (tasso anche più alto di quello attuale su c/c bancari o postali); t = 20% e (T) = 0,0015, (Ir) = 400*0,20 + 40.000* 0,0015 = 140 pari al 35% di I = 400; ma se T fosse 0,002 (Ir) = 80 + 80 = 160 = 40% dell’interesse (I) = 400. Con buona pace di chi afferma che le “rendite” (parassitarie ?) subiscono ritenute fiscali troppo basse. L’assurdità di tale affermazione, sta nel fatto che, come detto, con un P alto e quindi con un (i) più favorevole, anche con imposte come quelle attuali, si ha (Ir) 26,66% che è < del 30% (condizione che peggiorerebbe se si avesse t = 22% e/o T = 0,002, il che significa che i fautori dell’equità, secondo i quali, questa migliorerebbe aumentando l’imposizione sulle “rendite” (meglio: interessi) non si rendono conto che il colpo vero si dà a chi ha un (P) minore e consegue per questo un (i) molto basso. Il ragionamento di costoro è distorto dal loro errato concetto di rendita, che li trascina verso un’ideologica visione del Patrimonio che non è necessariamente frutto di speculazione, ma, più spesso, di lunghi e anche sofferti risparmi che “danneggiano” solo il consumo immediato di chi li fa rinviando al futuro la speranza di vivere con maggiore sicurezza.

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