Holden e la partita della vita

Holden

Il romanzo Il giovane Holden (1951) di J.D. Salinger inizia nel dicembre del 1949, a pochi giorni da Natale. È sabato, ma non un sabato qualunque per l’Istituto Pencey di Agerstown, Pennsylvania. È «il sabato della partita col Saxon Hall», l’ultima dell’anno, una sorta di «affare di stato per il Pencey». Tutta la scuola è riunita intorno al campo di rugby, ma non Holden Caulfield che se ne sta isolato sul cocuzzolo di Thomsen Hill. Guarda la partita da lontano e intanto cerca di provare un senso d’addio: «ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. È una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando».

La vita è una partita

Holden dimostra fin da subito un bisogno spasmodico di realizzare cosa succede dentro e fuori di sé, giudicare cosa gli accade intorno, dialogare con i propri sentimenti attraverso continui monologhi interiori. Anche se inizialmente sembra solo un sedicenne ribelle e cinico, in realtà è dotato di quella sensibilità straordinaria che in letteratura coincide quasi sempre con la solitudine. L’addio è per l’Istituto e per tutto l’odioso microcosmo che lo popola. Bocciato in quattro materie su cinque, Holden è stato cacciato dalla scuola. Il ragazzo accetta di buon grado la decisione (non è la prima volta che cambia scuola), ma quando arriva il momento di andarsene gli viene quasi da piangere. Sta lasciando un mondo che rifiuta, ma da cui al tempo stesso viene respinto.

Come dice il preside Thurmer «La vita è una partita che si gioca secondo le regole», e se non segui quelle regole sei fuori. Si tratta della partita che vale il passaggio dall’adolescenza all’età adulta e Holden non riesce nemmeno a parteciparvi. Deve saltare la gara come la sua squadra di scherma, costretta a non disputare l’incontro a New York perché proprio lui ha dimenticato tutta l’attrezzatura sulla metropolitana. Il suo innato anticonformismo e la sua visione implacabilmente critica del mondo degli adulti non gli consentono di uniformarsi. Holden è the Catcher in the Rye (espressione intraducibile in italiano che costituisce il titolo originale dell’opera), ovvero colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone. Il burrone è l’età adulta.

Il mondo degli adulti e la letteratura

Nell’ottica di Holden gli adulti sono falsi e pretenziosi, proprio come l’annuncio pubblicitario dell’Istituto Pencey. «Si fanno pubblicità su un migliaio di riviste, e c’è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni». Rifiuta ogni tipo di inquadramento e nel costante bisogno di affermare la propria identità sceglie in modo del tutto soggettivo cosa studiare e cosa no. 

Indicativa è la postilla conclusiva del tema di storia che Holden ha consegnato al professor Spencer: «Questo è tutto quello che so sugli egiziani. A quanto sembra, non riesco a provare un grande interesse per loro, benché le sue lezioni siano molto interessanti. Non ho niente da obiettare se mi boccia, perché tanto sarò bocciato in tutto fuorché in inglese». Letteratura inglese è l’unica materia in cui viene promosso perché tratta di libri, la sola cosa che lo appassiona. Oltre a provare grande ammirazione per il fratello D.B. (scrittore di successo), ama anche autori come Isak Dinesen e Ring Lardner. Sono gli amici che vorrebbe avere, creatori degli unici mondi in cui questo giovane isolato si sente incluso.

Foto di Free-Photos da Pixabay

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