Giorgio Bassani e l’eco della libertà al di là del muro di cinta

Nel 1972 Giorgio Bassani pubblica L’odore del fieno, una raccolta di racconti in cui, tra i tanti nomi e volti, ritroviamo Bruno Lattes: lo stesso personaggio che in Dentro le mura aveva aveva dato l’estremo saluto alla socialista Clelia Trotti. Anche Altre notizie su Bruno Lattes si apre su un funerale, quello dello zio Celio. Bruno vi partecipa malvolentieri, spinto dall’insistenza del padre. Sopporta il corteo funebre, l’ingresso al cimitero e il percorso fino al luogo della sepoltura con una tranquillità che sa di apatia. Poi arriva il momento di calare la bara nella fossa e improvvisamente Lattes si riscuote. Incrocia lo sguardo del padre e viene pervaso da una rabbia che gli è fin troppo familiare. Torna a chiedersi cosa ci fa in mezzo a tutti quei parenti con cui non ha niente in comune. 

I Camaioli, i Bonfiglioli, gli Hanau, gli Josz, gli Ottolenghi, i Minerbi, i Bassani… Tutti bassi, tarchiati, con gli occhi azzurri o nero opaco, con i menti molli; instabili e eccitabili; inscrivibili nella numerosa ed ebraicissima “tribù Lattes”. E lui invece alto, secco, scuro di pelle e di capelli. Un Lattes, certo, ma forte e schietto come un cattolico. O almeno questo è ciò che gli piace credere. Perché il vero problema di Bruno non è essere diverso da parenti ebrei, bensì non esserlo abbastanza da scampare al triste destino della sua stirpe. 

La malattia e l’attesa del nuovo Eden

Quello degli ebrei è un destino fatto d’esilio e persecuzioni che nel 1938, con le leggi razziali, si arricchisce di un nuovo capitolo.  Una maledizione che rende l’ebreo un escluso e la sua vita un’attesa perenne della morte. L’ attesa nel racconto è simboleggiata dal cancro, che il padre aveva per forza eletto come malattia di famiglia. Una specie di condanna la cui prospettiva poteva diventare un assillo continuo, un «pensiero dominante da alimentare e coccolare dentro, fra paura e delizia, per anni e anni».  E solo dopo sarebbe venuta la morte, l’unica vita in cui la libertà non è solo intuita, ma afferrabile. 

Ed ecco allora che come in tutte le opere di Giorgio Bassani, anche in Altre notizie su Bruno Lattes, il cimitero israelitico torna a rappresentare l’Eden perduto, l’unico luogo dove l’ebreo può trovare la pace. Un paradiso circoscritto, fisico, descrivibile in ogni suo angolo e in ogni sua trasformazione. Le mura che lo circondano lo separano dal resto di Ferrara, ma segnano anche un collegamento con la città, e con il mondo dei vivi. All’interno, a parte le lapidi, ci sono solo piante e un manto d’erba che cresce selvaggiamente, simbolo di una vitalità imprevedibile che dirompe solo tra le mura cimiteriali. 

La falciatura e l’odore del fieno

«Durante i mesi estivi, l’erba nel nostro cimitero è sempre cresciuta con forza selvaggia. Attualmente non so. Certo è che attorno al ’38, all’epoca delle leggi razziali, la Comunità soleva affidarne la falciatura a una azienda agricola della provincia […] I falciatori avanzavano adagio, disposti a semicerchio e muovendo le braccia con ritmo concorde. Ogni tanto uscivano in gridi gutturali». Le grida gutturali dei falciatori sono il risvolto sonoro della libertà rappresentata dall’erba selvaggia e, in generale, dal cimitero. L’unico modo che essa ha di valicare le mura del cimitero e raggiungere le sentinelle di guardia all’adiacente torre rossa che all’epoca funzionava da polveriera militare («E le sentinelle di guardia alla vicina polveriera, ascoltando quelle voci lontane, perdute nella canicola […], dovevano sentire più forte il peso della loro costrizione, più acuta la nostalgia della libertà»).  

Dopo la falciatura l’erba diventa fieno e con il suo odore rallegra il corteo funebre dello zio Celio, rianimandolo dall’oppressione del caldo e dandogli pace e sollievo. Forse è quell’odore che per un attimo distrae Bruno Lattes dalla sua solita rabbia. Un odore che sa di vita desiderata e che in quanto aria profumata sfuma, scompare. Ma un rumore che rimanda a quella vita resta, solo che non è più nel cimitero, si è spostato al di là della cinta muraria: «ecco un suono di fisarmonica, vicinissimo. Bruno alzò gli occhi. A causa del muro che separava il cimitero dai bastioni, il suonatore non riusciva a scorgerlo. Vedeva là sopra solo un soldato di fronte a una garitta […], il quale, protendendo il viso sudato in avanti, annuiva a tempo con la musica». 

Al di là e l’aldilà

E quindi viene da domandarsi: l’eco della vita libera viene da fuori o da dentro il muro di cinta? La risposta è da nessuna delle due parti, o forse da entrambe. Sicuramente sempre dalla parte opposta a dove si trova chi ascolta: al di là e nell’aldilà. In ogni caso da un altrove che può essere altro luogo, altro tempo, altro evento. Ed è proprio nel continuo scivolamento tra il qua e il là, tra l’ora e il prima, tra il padre e il figlio, e tra tutti gli elementi che si richiamano l’un l’altro che la narrativa bassaniana realizza il suo scopo più ambizioso: ripercorrere un intero vissuto attraverso connessioni spazio-temporali affidate a luoghi ferraresi tangibili e riconoscibili.  

Ed ecco dunque che se il racconto comincia nel presente, la costante dell’erba che cresce con forza selvaggia nel cimitero porta a un immediato scivolamento nel lontano ’38. E poi, per analogia di eventi, dall’agosto del ’38 la memoria rotola fino all’agosto del 1924, quando un Bruno Lattes ancora bambino assiste al funerale di suo nonno Benedetto, morto di cancro allo stomaco e dopo, secondo un’antica usanza ebraica, cosparso di calce viva. Anche allora il prato era falciato di fresco, «invitava a correre». Il piccolo Bruno aveva corso, incurante di tutto quello che gli succedeva intorno. Poi era caduto e si era sbucciato il ginocchio. Quel dolore fisico (che già preannunciava il dolore esistenziale che sarebbe venuto dopo) l’aveva fatto piangere. Poi, quando la madre era andata a soccorrerlo, Bruno aveva pronunciato una frase che racchiude il senso ultimo di tutto il racconto: «Solo i morti stanno bene». 

Foto di Hasan Mahamud Sokal da Pixabay 

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