Eilean Mòr, l’isola misteriosa

L’arco settentrionale della Scozia è formato dall’arcipelago delle Orcadi e delle Ebridi. Ad un centinaio di chilometri da quest’ultimo, immerse nel gelo dell’oceano Atlantico che si spinge verso l’Islanda, si stendono sette isole, le Flannen, note anche come Seven Hunters (Sette Cacciatori). La più grande di esse è Eilean Mòr e tra i suoi paesaggi incontaminati si cela un mistero.

Incantati luoghi circondati dal mare

Chiunque si sia spinto nella parte settentrionale della Scozia; chiunque abbia percorso le brumose valli delle Highlands ed abbia navigato verso gli arcipelaghi che la separano dal profondo nord, ha attraversato il tempo. Castelli che narrano storie di coraggiosi guerrieri; Tartans che celano, nei colori e nelle forme dei loro disegni, il clan di appartenenza; il suono ipnotico e penetrante delle Pìob Mhòr, le cornamuse, che sembra ancora riempire antichi campi di battaglia; venti che portano l’eco di lontane leggende; e luoghi selvaggi dotati di una propria vita, diversa da quella degli uomini che li abitano o vi sostano. Il silenzio regna sovrano e, nel silenzio, è facile incontrare se stessi. Le coscienze illuminate tornano sempre cambiate da un viaggio in quei luoghi. Ebbene, la nostra storia di oggi, parte da lì e si spinge in un luogo ancora più isolato.

Una vecchia canzone gaelica narra di una donna che attraversa mari ed isole, montagne di pioggia e di sole per recarsi nelle Ebridi, perdendo se stessa. Attenti a non perdervi con me nelle isole Flannen.

I pascoli verdi e rigogliosi delle Flannen sono sempre stati, sin da tempi antichi, meta dei pastori delle Ebridi, i quali portavano lì le loro greggi. Non osavano trascorrervi la notte, però. Nonostante la presenza, su Eilean Mòr, la più grande e la più settentrionale di quelle isole, di una chiesa eretta nel XVII secolo, che avrebbe dovuto porre sotto l’ala protettrice di Dio chiunque si avventurasse in quei luoghi, i pastori erano dominati dal rispetto per il Piccolo Popolo, che si dice dimorasse in quei luoghi selvaggi  – fate, elfi, folletti, piccoli esseri dalla potente magia -,  ma, soprattutto, dalla paura di giganteschi mostri crudeli come il Cavallo d’Acqua. Each-Uisge è il suo nome gaelico; un nome potente, che impone ossequio ed attenzione.

Nella seconda metà dell’Ottocento, intensificatosi il traffico marittimo commerciale sulla rotta verso Clydebank, furono molte le navi che si schiantarono su quelle isole, tanto che, superate le insidie naturali di un mare spesso in tempesta e di una costa impervia, nel dicembre 1899 venne inaugurato il Faro di Eilean Mòr, situato su uno sperone di roccia a 60 mt. sul livello del mare. Le navi, da quel momento, sarebbero state guidate dal suo fascio di luce ed avrebbero evitato le brune scogliere dei dintorni. L’anno seguente, però, pochi giorni prima del Natale del nuovo secolo, il Faro cessò di funzionare. Era possibile che i tre guardiani, James Ducat, Donald McArthur e Thomas Marshall, si fossero ammalati contemporaneamente o che il Faro fosse stato danneggiato da una tempesta al punto da non poter essere riparato dai tre, che avevano i mezzi e le competenze per farlo? Inizia qui il nostro percorso nel mistero.

Svaniti

26 dicembre 1900. Il mare si è finalmente placato ed il cielo si è aperto rivelando l’intenso azzurro di una tersa giornata del nord. Fino a quel giorno le condizioni atmosferiche avverse avevano impedito a chiunque di avvicinarsi alle Flannen. Joseph Moore, dunque, chiamato a ripristinare il Faro ed a scoprire cosa fosse successo ai tre guardiani, parte a bordo dell’Hesperus alla volta di Eilean Mòr. In fase di attracco la nave lancia i primi segnali a terra. Nessuna risposta. Nessun segno di vita.

Quando Moore raggiunge il cancello di ingresso all’area circostante il Faro, nota che è ancora chiuso. Inizia a chiamare a gran voce i tre guardiani.

“Duuucaaaaat! McAAAArthuuuuur! Maaaarshaaaaall!”

Tutto tace.

Solo il sibilare del vento restituisce segni di vita.

Moore si dirige, dunque, verso l’entrata di quella gigantesca torre: anche la porta del Faro è chiusa. Un brutto presentimento serpeggia all’ombra della sua coscienza. Continua a chiamare i loro nomi, ma con sempre minore convinzione. Quel luogo freddo e solitario gli restituisce solo un profondo silenzio.

Sale lentamente fino alla grande stanza di ricreazione, perfettamente in ordine ma deserta. Sembra disabitata da un po’: l’orologio è privo di carica e, nel camino, ci sono pochi residui di legna bruciata ormai gelidi. Moore attende di essere raggiunto da due marinai prima di accedere alle stanze da letto del piano superiore. Il timore di trovarsi di fronte ad uno spettacolo raccapricciante è sempre più forte e sta diventando panico. Anche nelle stanze, tuttavia, non c’è ombra dei tre uomini. I letti sono intatti. Non c’è nulla fuori posto, a parte un’aria di mistero che sembra persino più gelida di quella che batte, nel vento, ai vetri delle finestre.  La lavagna di ardesia sulla quale Ducat usava appuntare note giornaliere reca la data del 15 dicembre, la stessa che aveva segnato il misterioso spegnimento del Faro.

Moore ed i marinai che lo hanno raggiunto arrivano in cima. Non c’è ragione che possa giustificare la mancata accensione del Faro: c’è olio in abbondanza e gli stoppini sono sufficientemente imbevuti. Evidentemente, il 15 dicembre, i tre guardiani avevano predisposto tutto. Poi, però, erano spariti.

Prima di ritornare alla barca, la ricerca prosegue sul resto dell’isola. Niente. Nessuna traccia di Ducat, di McArthur, o di Marshall. Non c’è motivo di pernottare lì, deve pensare Moore. Qualcosa, evidentemente, gli dice che la sinistra scomparsa dei tre uomini potrebbe non essere un fatto isolato. Meglio tornare a Lewis. Ha con sé ancora i regali di Natale per la famiglia. Vuole tornare al focolare domestico e dimenticare quei luoghi misteriosi.

Tre giorni prima che l’anno finisca, sulla base del primo sopralluogo di Moore, sbarcano sull’isola due investigatori, chiamati ad eseguire un’indagine approfondita. Notano devastazioni dovute alle forti tempeste dei giorni precedenti. In particolare, la grande gru situata sulla scogliera, utile ad issare gli oggetti più voluminosi, ha le funi attorcigliate. Ai piedi di essa, in un crepaccio, si trova la cassetta degli attrezzi. Mancano, inoltre, due delle tele impermeabili usate dai guardiani per proteggersi dalle intemperie e dalle mareggiate. Ad una prima analisi i fatti sembrano drammaticamente chiari: una brutta tempesta deve aver danneggiato la gru; i tre hanno tentato di ripararla; il vento oppure un’onda anomala li ha trascinati in mare, dove hanno trovato la morte.

C’è un solo particolare che stona con questa ricostruzione: il 15 dicembre il tempo era sereno ed il mare calmo. Lo conferma il capitano Holman della nave Archer, che, proprio la notte del 15 dicembre, aveva navigato nei pressi delle Flannen, notando il Faro già spento.

Non si affoga solo nel mare in tempesta, però. I sostenitori dell’incidente non spostano l’attenzione altrove. I tre scomparsi devono essere finiti in mare. Non c’è altra spiegazione plausibile. Lo scenario, dunque, cambia con il cambiare delle ipotesi, ma il risultato è lo stesso.

Quell’affannato aggrapparsi alla razionalità

Le congetture investigative si accavallano.

Alcuni ritengono che uno dei tre sia scivolato in mare e che gli altri due siano morti nel tentativo di salvarlo dalle acque gelide. Peccato, però, che i cavi di aggancio e le imbragature di sicurezza risultano inutilizzati e l’esperienza dei tre rende improbabile, se non impossibile, che abbiano ceduto ad una simile corale distrazione.

Altri, invece, vanno a pescare nel melodramma, immaginando uno dei tre che, in preda alla follia, abbia ucciso gli altri due per poi suicidarsi. Non vi sono segni di lotta, però, né tracce di violenza.

Quarantasette anni dopo, uno scozzese, tal Iain Campbell, visita l’isola e, nonostante il bel tempo ed il mare calmo, nota un’onda gigantesca che si leva all’improvviso, abbattendosi sul molo e travolgendo ogni cosa; ricollega il fenomeno alla misteriosa scomparsa dei tre guardiani del Faro nel dicembre 1900 e, come scrive Valentine Dyall nel suo libro Unsolved Mysteries, ritiene di aver risolto il mistero: i tre sono finiti in mare a causa di un’onda simile, fenomeno non raro da quelle parti; un’onda generata da un incrocio particolare di correnti atlantiche, o, forse, da movimenti tellurici. C’è da chiedersi, però, il motivo per cui si trovassero tutti e tre sul molo, quel giorno. O dobbiamo, forse, credere che due siano stati travolti dall’acqua e l’altro, dimenticando l’addestramento e l’attrezzatura idonea al recupero di un corpo in mare, si sia gettato nei marosi a fare chissà cosa, visto che è impensabile, per un uomo, recuperare due corpi travolti da una simile ondata?

Qualche dubbio permane e ne parlano ancora gli scozzesi più anziani, legati ai miti della propria terra. Sì, in un qualche lontano, sperduto paesino del nord, in un’isola ventosa, forse, dove i giorni invernali si tuffano presto nel mare per lasciare spazio a lunghe notti animate da strane creature; in qualche aspra e torbosa terra dei glen, dove si animano le cèilidh, feste nelle quali il sapere antico fluisce di generazione in generazione, tra fiumi di whisky e danze al suono della clàrsach, l’arpa celtica; in qualche misteriosa notte scozzese si parla ancora delle Flannen, dei Sette Guerrieri, del Piccolo Popolo che le abita, e del Cavallo d’Acqua, l’Each-Uisge, in grado di plasmare l’acqua in ogni forma e con essa portare sterminio e devastazione.  In quelle terre lontane del nord c’è ancora qualcuno, forse, che parla dei tre guardiani del Faro di Eilean Mòr e racconta l’unica storia che non lascia dietro di sé le sbavature investigative delle ricostruzioni razionali: è stato l’Each-Uisge a riportare sull’isola il buio ed il silenzio offesi dagli uomini e dalla luce del Faro, lasciando posto ad una notte pregna di delicati fili di luce sulla scia di un volo d’ali fatate.

Sembra una favola. Forse lo è. E forse qualcuno, in quelle terre lontane, l’ha già narrata. Ma, come si dice nelle Highlands, ”una buona storia resta tale anche se viene narrata una seconda volta”.

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