Dichiarare un genocidio, più facile a farsi che a dirsi

“ Per noi il genocidio erano le camere a gas, com’era accaduto in Germania. Non siamo stati capaci di comprendere che anche con un machete fosse possibile commetterlo.”

L’ex-segretario generale dell’Onu, Boutros Ghali, in carica durante l’eccidio, pronunciò tali parole riflettendo sulla tragedia ruandese del 1994, poi riconosciuta come genocidio. Lo ricorda Silvana Arbia, nel libro “Mentre il mondo stava a guardare”, dove racconta la sua esperienza di procuratore in Africa per quasi nove anni, al servizio del Tribunale penale internazionale per il Ruanda. « Una cosa è certa: tra aprile e luglio del 1994 in quel paese si verificò il più grande blackout delle tutele civili e giuridiche mai avvenuto nella recente storia dell’umanità », dichiara la scrittrice.

Una memoria da rinfrescare

Quali sono oggi i “maceti” a cui non siamo ancora stati abituati? E cosa diranno domani “i colletti bianchi” nel miserabile tentativo di chiedere scusa per i massacri odierni?

La situazione ruandese era chiara già 24 ore dopo l’inizio delle uccisioni di quel 7 aprile, ma il genocidio è stato affermato come tale tardivamente a causa dell’indugiare dell’ONU e della diplomazia statunitense – un ritardo di circa due mesi, sufficiente all’attuazione del genocidio stesso. I massacri furono fermati solo dall’intervento di milizie locali, quando metà delle vittime predestinate erano già state uccise.

La superficialità con cui la comunità internazionale chiuse gli occhi in Africa è la stessa che da 8 anni getta veli in Siria, a partire da quella protesta contro il regime di Bashar Al-Assad che si trasformò in un sanguinoso conflitto. Non esistono pagine di storia da cancellare, esistono piuttosto fallimenti e resoconti da conservare per non dimenticare. La Siria è probabilmente “l’ultimo dei genocidi”, ma non è l’unica terra senza pace nel mondo, né l’unico paese di un popolo senza riposo.

Sempre vi saranno partite più importanti da giocare

Il contesto internazionale in cui il genocidio ruandese si preparava ad esplodere si presentava tale: le guerre dei Balcani stavano impegnando buona parte delle risorse delle Nazioni Unite, la crisi internazionale si stava diffondendo e stava paralizzando il mondo, il fallimento dell’operazione Restore Hope in Somalia e la battaglia di Mogadiscio con la conseguente perdita di diversi soldati americani avevano profondamente segnato gli Stati Uniti, questi non intendevano più essere eroi sconfitti di altre guerre. Citando le parole dello scrittore senegalese, Boubacar Boris Diop: “Inoltre, negli Stati Uniti stavano per iniziare i campionati del mondo di calcio. Al mondo intero non interessava nient’altro. E in ogni caso, qualsiasi cosa accadesse in Rwanda, per la gente sarebbe sempre la solita vecchia storia di negri che si scannano tra loro”.

Il New York Times citava in prima pagina i dati forniti da Human Rights Watch scrivendo di 100.000 morti in dieci giorni, per poi definire quello che stava accadendo nel paese africano un “genocidio”.

Eppure il mondo restava a guardare.

Il ruolo dei media – il quarto potere

L’atteggiamento tenuto nei confronti del Rwanda è un’escalation di vergognosa indifferenza e attendismo internazionale. Un attendismo costato la vita a quasi un milione di persone.

Il 30 aprile 1994 , a circa 23 giorni dall’inizio della carneficina, il Consiglio di Sicurezza approvava un testo in cui condannava i massacri definendoli “crimini punibili dalla legge internazionale”, evitando di parlare di genocidio. Il problema: « se non attuassimo un pronto intervento, faremmo una figura ridicola », dichiara miseramente David Hannay, l’allora delegato britannico. A sostegno, il delegato ruandese asseriva che le uccisioni dei civili nel paese fossero l’ovvia conseguenza di una guerra civile. Clinton, dagli Stati Uniti, vietava l’utilizzo del termine genocidio, liquidando i massacri rwandesi come tribal resentment, scontri a sfondo tribale. Mitterrand invece, presidente della Repubblica Francese dal 1981 al 1995, emette una sentenza peggiore: «Un genocidio in Africa non è così terribile come altrove» (riporta il giornalista Philippe Gourevcitch nel suo libro The Reversals of War). E per finire, Kofi Annan consiglia il ritiro delle truppe dal Ruanda il 21 aprile 1994, giorno in cui il genocidio tocca il suo picco più drammatico.

Riconoscere che un genocidio è in atto è un rischio dalle conseguenze non affatto trascurabili: sostanzialmente per l’ONU significherebbe dover intervenire. Ciò si tradurrebbe in un dispendio di risorse, di denaro e soldati, e potrebbe in seguito comportare serie compromissioni.

Siamo destinati a compiere gli stessi indicibili errori

“La tragedia del Ruanda fu la tragedia del mondo. Guardando indietro vediamo segnali che allora non fummo in grado di interpretare. […] Non possiamo negare che nell’ora della necessità più urgente, il mono abbandonò il popolo ruandese”. Daniele Scaglione, ex-presidente di Amnesty International e scrittore, ci restituisce alcune delle parole di cordoglio e “nostra culpa” che Kofi Annan, circa un anno e mezzo dopo essere diventato Segretario generale delle Nazioni Unite, rivolse al popolo ruandese nel maggio del 1998. Secondo Annan tuttavia l’unica colpa dell’Onu era di non aver saputo “salvare il Rwanda da sé stesso”, rimarca Scaglione.

La nostra colpa tra qualche anno sarà ancora una volta quella di aver fatto gli interessi di pochi, a discapito dei molti. Tutele di forze oligarchiche, anziché delle minoranze.

Fonte foto: rfi.fr/afrique

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