Cucina a Roma, l’arte di rielaborare le ricette altrui

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Cucina a Roma. È il suo momento. Bistrattata per decenni, si sta prendendo la rivincita, facendosi apprezzare in tutto il mondo. Tradizionali trattorie testaccine aprono succursali nella rivale Milano. Altri oltrepassano l’oceano e si affermano negli Stati Uniti e in Sudamerica. Si diceva che fosse una cucina grassa. Oggi le ricette romane sono apprezzate a Dubai, Singapore e in Giappone.

Accanto alle ricette originarie, tuttavia, molti piatti della cucina romana sono rielaborazioni di quelli di altri lidi. Anzi, sono forse queste le ricette “di punta”. A noi romani piace immaginare che siano state importate ai tempi delle conquiste dell’Impero e poi rielaborate in loco. Niente di tutto ciò. La cucina italiana attuale si è formata nell’età moderna. Quella romana non è da meno. Tali ricette, quindi, sono state in gran parte introdotte dai pellegrini e dai forestieri in epoca papalina. Poi fatte proprie, a modo loro, dalle massaie romane. Esaminiamo allora quali sono tali succulenti piatti.

Cucina a Roma. Bucatini alla Matriciana

Ad Amatrice, paesino compreso sino al 1860 nei confini del Regno delle Due Sicilie e sino al 1924 nella regione Abruzzi, vanno fieri dei loro spaghetti. Tanto che anche nei cartelli d’indicazione stradale è scritto “patria degli spaghetti all’amatriciana”. Gli spaghetti vanno conditi esclusivamente con guanciale, pecorino e pomodori pelati. Il piatto è stato introdotto a Roma dai pastori che, nella stagione invernale, scendevano a valle per la transumanza.

I romani, però, ne hanno variato la ricetta originale, preferendo i bucatini agli spaghetti. Senza formalizzarsi se, al posto del prescritto guanciale, si utilizzi la più volgare pancetta. Sdoganato col tempo anche l’impiego della cipolla. Anche se taluni grandi cuochi come Francesco Panella si scandalizzano ancora di tutto ciò. Il risultato, a Roma, è un bel piatto di bucatini alla Matriciana (e non all’amatriciana). O meglio: “matriciani”.

Cucina a Roma. Tagliatelle emiliane e fettuccine romane

Lo Stato Pontificio allargava i propri confini sino a comprendere la Romagna e parte dell’Emilia. Bologna inclusa. Qui uno dei piatti principali sono le tagliatelle al ragù. I romani lo hanno importato sui sette colli, ribattezzandolo “fettuccine al sugo”. Cosa differenzia le tagliatelle dalle fettuccine? I libri di cucina ci dicono che le fettuccine hanno una larghezza che va dai 4 ai 6 millimetri. Le tagliatelle invece sono leggermente più larghe e vanno dagli 8 ai 10 millimetri. A nostro parere le fettuccine romane sono anche leggermente più spesse. L’impasto appare meno morbido e, a tratti, con alcuni grumi più compatti.

La differenza principale è il ragù. Le massaie romane si sono subito resi conto che mettersi in concorrenza con le colleghe emiliane, in tale campo, sarebbe stato improponibile. Troppo superiore la qualità del maiale emiliano e troppo costosi i tagli di manzo da utilizzare. Quindi sostituiscono spesso il ragù con del semplice sugo di pomodoro e basilico. Oppure utilizzano ancora una volta i tagli meno pregiati di carne. In particolare quelli del pollo: fegato, cuore, ventriglio e cresta. Il cosiddetto “quinto quarto di pollo”.

Gnocchi di patate e gnocchi alla romana, pizza da Napoli e ossi buchi da Milano

Per quanto riguarda la ricetta degli gnocchi alla romana ci troviamo di fronte a una rielaborazione dell’elaborazione. Gli gnocchi di patate infatti derivano dagli knodel dell’Europa Centrale, in particolare del Tirolo. Non sono stati portati a Roma dai Lanzichenecchi di Carlo V, ai tempi del sacco del 1527. Infatti non se ne hanno notizie anteriori ai primi dell’800. Probabilmente sono giunti nelle “legazioni” emiliane o romagnole dello Stato Pontificio nella prima parte del XIX secolo. Introdotti – forse – dalle truppe austriache di occupazione, sono diventati “gnocchi” grazie a una prima elaborazione fatta sul posto. A Roma, l’impasto di patate è stato sostituito da quello in semola di farina. Ottenendo così gli “gnocchi alla romana”.

La tradizione pizzaiola romana proviene, naturalmente, da Napoli. Tuttavia il tipo di pizza che a Roma è detta “napoletana” (con pomodoro, mozzarella e acciughe) a Napoli è detta “romana”. La differenza principale tra le due scuole è che a Roma la pizza è bassa e croccante mentre a Napoli ha il bordo alto e, forse, maggiormente condita. Chi scrive sostiene che gli allievi hanno superato i maestri.

La ricetta dell’ossobuco, originaria di Milano, comprende la “gremolada”. Si tratta di un trito di prezzemolo e aglio con scorza di limone. Esso completa ed esalta il sapore della carne di vitello. Altri ingredienti sono: carote, sedano e cipolla. Oltre al burro per rosolare il tutto. A volte, i milanesi aggiungono un po’ di conserva di pomodoro. A Roma, invece, al posto della “gremolada” si aggiungono i piselli. Tale modifica non è disdegnata nemmeno dai milanesi. I quali, però, per orgoglio, chiamano il piatto “ossi buchi con piselli” anziché “osso buco alla romana”.

Cucina a Roma, si rielaborano gli arancini e nasce il supplì

Il principe del “mangia e fuggi” è il supplì. Una riedizione dell’arancino siciliano ma utilizzando soltanto riso, sugo di pomodoro e mozzarella. Confezionato a forma di salsicciotto è poi impanato e fatto friggere. Va mangiato quasi bollente e la mozzarella deve filare, come il filo di un telefono dell’era pre-cellulari. Tanto che i romani lo hanno battezzato “supplì al telefono.

Il primo supplì, col nome di soplis di riso (al femminile), appare nel 1874, nel menù della Trattoria della Lepre in Via dei Condotti 9. Il locale era frequentato, tra gli altri, da Gogol e da Melville. Oggi da Tokyo a New York il supplì è apprezzato e lo si mangia come lo mangiano i romani. Rigorosamente con le mani, scottandosi le dita e “alla zozzona”.

Variazione della variazione, carciofi alla giudìa e alla romana

La scuola gastronomica più antica di Roma è quella di tradizione ebraica, con centro nell’antico Ghetto. Oltre alle loro specialità tradizionali, gli ebrei hanno introdotto a Roma soprattutto le fritture. In particolare i carciofi cosiddetti “alla giudìa”. Sono schiacciati e immersi completamente a friggere nell’olio. Non sappiamo se, prima della diaspora, anche in Israele i carciofi si cucinavano in tal modo. Diversamente si tratterebbe di una variazione nata a Roma. A tale variazione, i romani al di qua delle mura del Ghetto ne hanno sovrapposto un’altra. Hanno ideato, cioè, i “carciofi alla romana”. Non sono fritti ma lessati con aglio, mentuccia e cosparsi di limone. Poi sono conditi con olio sale e pepe.

Ai romani, insomma, piace importare le ricette “barbare” e poi riadattarle alla loro maniera. In linea di massima, tali rielaborazioni sono più semplici e di esecuzione più veloce. I sapori sono quasi sempre meno delicati e più forti. D’altronde “a Roma se magna così”.

Foto di solucionindividual da Pixabay

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